Perché non scriverò mai poesie
Ho scritto un po’ di tutto, romanzi, saggi, sceneggiature radiofoniche e narrativa per ragazzi, ma mai una poesia, neppure durante l’adolescenza. Semplicemente perché non ne sono capace: non riesco a esprimermi nel breve volgere di poche righe; mi occorrono capitoli, paragrafi, voci, un’azione che si dipana e scene che si alternano. Non me ne chiedo le ragioni: sarebbe come domandarmi perché ho gli occhi scuri e non azzurri. Tuttavia leggo poesie, traggo ispirazione dai versi altrui, e, soprattutto, la figura del poeta mi affascina.
Ma esiste una reale differenza tra gli autori di liriche e quelli di racconti?
È vero che sia il poeta che il romanziere sono, come dice Faulkner, entrambe creature spinte dai demoni, creature che hanno un sogno e devono liberarsene. Anzi, non hanno pace fino a quando non se ne sono liberati:
Tutto va perduto, amore, orgoglio, pudore, sicurezza, felicità, purché il libro sia scritto.
Credo tuttavia che a segnare il distacco tra poeta e romanziere, oltre alle inclinazioni e alla facilità con la quale si padroneggia, o meno, un certo genere, sia lo stato emotivo. Spesso anche il romanzo ha origine da un’esperienza vissuta, ma in generale se ne distacca e in qualche modo la muta e la universalizza, mentre la poesia scaturisce quasi sempre da una emozione personale. Sosteneva Emily Dickinson:
Ogni mia poesia è un messaggio consegnato a mani per me invisibili.
L’autore di una poesia vuole poter far dire a qualcuno, ecco, anch’io ho provato questo sentimento, malgrado il fatto che tutto abbia avuto origine da una suggestione individuale. In generale si avverte il bisogno di scrivere un componimento amoroso se si è innamorati; forse, più si è esaltati e meglio si riesce a comporre d’amore. Forse si è assaliti dall’urgenza di affidare invettive alla carta se si è gelosi, o adirati; di spronare al coraggio, o di indugiare nella malinconia, se è quel che si prova. Oppure si trasforma in parole musicali, e lo si rende al mondo, un brivido indistinto, ed effettivamente un verso come quello di Novalis
E cos’altro sono io, se non il fiume?
ha in sé della magia, vuol dire tutto e niente, dà forma a sentimenti oscuri e per ciò stesso risulta liberatorio, catartico, bello. Non che la poesia non sia lavorata, anzi: perché in essa una virgola, una parola contano ancor di più che nell’altro genere. Ma l’aspetto psicologico prevale comunque, e il poeta che accorcia, allunga, sposta e taglia si muove sempre in quell’attimo privilegiato che è la sua intuizione, la sua sfera. Con un romanzo, molto cambia. Un romanzo è una costruzione decisamente più complessa. Personaggi, la struttura portante, la trama, le sottotrame. Si ha in mente una storia, la si deve drammatizzare, sviluppare. Si sa, si sente che, a un certo punto, occorre assolutamente che i protagonisti dicano parole d’amore. Lo si può fare anche se non si è innamorati, perché ci vuole, è la struttura a richiederlo. Si alternano i dialoghi, le descrizioni, le parti di contorno, si erige un’architettura. Ciò malgrado, esiste un lato poetico anche nel romanzo: i personaggi. Ogni volta che lo scrittore ne crea uno dà vita a una parte di sé, a qualcosa che era già contenuto in lui, a una tendenza che non si era ancora espressa, a un desiderio che si portava dietro. Soltanto un romanziere in conflitto con se stesso – non necessariamente un conflitto armato: basta possedere parecchie identità, uomo, donna, bambino, anziano, soldato, pittore, medico, maliarda – può inventare dei personaggi credibili, perché in effetti è sempre di se stesso che parla. Ma lo attende una sorpresa… perché, quando il romanziere lo ha tratto fuori, il suo personaggio vive di vita propria. L’autore non può che assistere a quel che avviene, perfino in modo indipendente dalla sua volontà; è l’antica verità per la quale non si scrive il libro che si vuol scrivere, bensì quello che si deve scrivere. Il lavoro consiste nel rapportare il personaggio (che ormai comanda, perfino sbeffeggia il suo artefice) con tutti gli altri, che magari non ne possiedono la stessa forza (i comprimari, insomma, che non sono così ribelli, così prepotenti come i protagonisti), inserirlo nell’intreccio, mantenere l’unità stilistica e occuparsi dell’insieme. Ecco, i miei guizzi poetici sono sparsi tra i fantasmi della mia mente che acquistano corpo una volta usciti per strada: perciò neanche ci provo, a produrre versi, oltre a causa della mia già affermata mancanza di vena. Tanti autori, alcuni dei quali grandissimi, addirittura inarrivabili, italiani e stranieri, hanno composto romanzi e poesie, ma difficilmente hanno raggiunto gli stessi risultati.
Ne vogliamo riparlare?
Simonetta Tassinari è nata a Cattolica ed è cresciuta tra la costa romagnola e Rocca San Casciano, sull’Appennino.
Vive da molti anni a Campobasso, in Molise, dove insegna storia e filosofia in un liceo scientifico.
Prima di scrivere La casa di tutte le guerre, edito da Corbaccio, ha sperimentato vari generi letterari, dalla sceneggiatura radiofonica alla saggistica storico-filosofica, pubblicando, tra gli altri, per Giunti ed Einaudi Scuola.