
Data di pubbl.: 2017
Pagine: 188
Prezzo: 18
Si sposta di paese in paese, arriva in piazza, si toglie la berritta, posiziona con cura un piccolo sgabello di sughero davanti a sé, fa il segno della croce e con voce chiara e parole attese comincia a narrare le sue storie “pro mannos e minores”, “per grandi e piccini”, “mille storie in una sola, tutto il mondo in punta di parola”.
Si chiama Agapitu Vasoleddu e fa uno dei più bei mestieri di tutti i tempi, il Matoforu, il venditore di metafore. Promette meraviglie: “Fame e lacrime, riso e vino nero per tutti! Avvicinatevi! Avvicinatevi, prego, non perdete questa occasione per ubriacarvi di parole!” e dapprima incontra resistenza – debole, sormontabile – in chi è restio a lascirsi sorprendere ma rimarrà presto avviluppato nelle spire di una narrazione di fascinazione implacabile.
Con lingua ricchissima di parlato, e sangue, e sudore, fortemente identitaria, il protagonista de Il venditore di metafore di Salvatore Niffoi, appena uscito per Giunti, ci trasporta in una Sardegna del mito e della terra, aspra e solida, fiera. Come in una proiezione di un film all’aperto le sue parole assumono il tratto dell’immagine, “un cinema in diretta, dove senti, tocchi, annusi, gusti, e tu sei tutti gli attori nello steso momento, sei il cielo e il mare, la pioggia e il vento, il riso e il pianto, tutto sei!”.
E incanta fin dalla storia di Libio Bigacciu, un becchino che nasconde segreti inenarrabili e inconfessabili, padrone assoluto dei corpi di chi sotterra fino a quando non si trova costretto alla soglia della pensione a dover riesumare una coppia di sposi, due amanti “i cui cuori si erano fermati insieme”, la cui tumulazione era stato il suo primo incarico: chiude il cerchio della sua e della loro vita, scavando sotto un cielo nemico. Ma delle salme abbracciate l’una all’altra non trova traccia: una sorpresa che ribalta il suo mondo e fa vacillare ogni sua certezza.
Non si spezza, anzi, si rafforza l’incanto degli uditori e del lettore con le vicende che verranno poi messe in bocca al Matoforu da Salvatore Niffoi in una delle sue prove migliori, dove sa dare voce e sostanza a una narrazione incantatoria che procede salda per tutto il libro.
Così quando piega docili le frasi del protagonista a raccontare la storia della piccola Juvanna, figlia di poverissima prostituta negli occhi la paura dei topi quanto della grettezza degli umani, delle brutture a cui pare destinata esporsi senza difesa fino a quando non riuscirà a prendere in mano la vita, rovesciare i destini e riscattare le proprie ferite in modo impensabile, molti anni dopo.
Creature di bordo strada, cui Niffoi – tra i maggiori scrittori italiani fin dall’esordio nel 1989 con Collodoro (Solinas, poi Adelphi) e Premio Campiello 2006 con La vedova scalza (Adelphi) – dona grazia e risarcimento di dignità con le parole più appropriate, con dialoghi vivi e descrizioni puntuali di uomini, donne, bambini, animali, perfino (“Matoforu incontrò per strada un cane. Lo vide prima in lontananza, che usciva zoppicante da un sentiero nascosto tra il verde del lentischio e l’argento degli asfodeli. Veniva avanti scuotendo la testa come in un gesto di penitenza […] una bestia da soma stremata da chissà quali fatiche, ormai stanca di stare al mondo. […] respirava a fatica. Aveva il muso sporco di una schiuma albumosa, come se lo avesse appena infilato in un paiolo di chiare d’uovo. Il pelame era ruvido e scuro, chiazzato da piaghe fresche e croste di fango indurito. La pancia era tesa e morbida, quasi che qualcuno gliel’avesse riempita di batuffoli di lana. Gli occhi e le zampe parevano raspati dal troppo camminare nei brutti sogni che fanno gli animali in agonia. Se avesse avuto il dono della voce quel cane avrebbe implorato solo la pietà di un colpo di bastone in testa per una buona morte.”): tutte creature unite dalla fatica del vivere di una Sardegna-mondo.
Per loro il Matoforu, omerico narratore errante, imbastisce storie di consolazione e leggerezza, una pausa dalla fatica, ad asciugare lacrime antiche e portare una meraviglia distraente, benedetta: “Ai poveri raccontava storie di ricchi sfortunati, per non fargli pesare troppo la fatica e la miseria. I possidenti, invece, li arringava con storie di massai che morivano a cent’anni con il sorriso tra le labbra, felici del loro pezzo di pane scuro e del loro trancio di lardo ingiallito. Quando andava via dalle case dei benestanti li lasciava con l’anima gonfia di sensi di colpa come i loro portafogli in pelle di capretto.”
Di realtà più vera del vero, ma anche di croci che prendono il volo e si trasformano in farfalle o di demoni che appaiono in terra e vengono a tarpare carriere, trasfigurazioni da realismo magico suggestioni di Marquez e Sepulveda. E ancora di chi decide di lasciare il lavoro stabile per farsi pastore e battezzare le pecore del proprio gregge con nomi di guerrieri greci e romani (cosa che non lo metterà a riparo dalla sfortuna nel suo progetto, ambizioso quanto quello dell’inventore della macchina cancellapeccati).
Toccando ogni registro linguistico, in un impasto di barbaricino con una lingua densa, materica a restituire tutta la complessità della sua isola-universo – come le migliori pagine di realismo magico sudamericano- Salvatore Niffoi riesce magistralmente a incollarci alle sue pagine di storie che si fanno paradigma e liberazione e attraversano il grottesco, il fantastico, il riso franco e l’ironia più sottile, la crudezza della realtà e il sogno, il sesso, il sangue.
Ognuno, nessuno escluso, può farsi oggetto di una storia e acquisire dignità di mito: e a ognuno Matoforu, con saggezza terrena e capacità di parola, dona voce e corpo bellissimi.
Anna Vallerugo