
Autore: Kevin Barry
Data di pubbl.: 2020
Casa Editrice: Fazi editore
Genere: Romanzo
Traduttore: Giacomo Cuva
Pagine: 246
Prezzo: € 18, 50
È il 23 ottobre del 2018. Due attempati ex narcotrafficanti spogliati di ogni residua ambizione e gloria si aggirano tra i moli del porto di Algeciras. I loro nomi sono inequivocabilmente irlandesi: Maurice Hearne e Charlie Redmond. Situata nell’estremo sud della Spagna, qualche chilometro ad ovest di Gibilterra, Algeciras è insieme approdo e punto di partenza per Tangeri. Uomini e donne in fuga da qualcuno o qualcosa, vagabondi dell’era digitale, spiriti disconnessi, seguaci di vecchi e nuovi stregoni, anime incapaci di adattamento e sognatori naïf si imbarcano sulle navi con destinazione Marocco. Spesso, i pendolari dello Stretto sono ragazzi e ragazze attratte da forme di libertà randagia o da vaghe promesse di rinascita religiosa. Alcuni di loro ritornano indietro, dopo aver battuto piste sbagliate, infranto sogni, smarrito possibilità. Algeciras è frontiera e mito, limite e destino. Maurice Hearne e Charlie Redmond, invece, hanno cinquant’anni suonati.
L’ultima nave per Tangeri è un romanzo di Kevin Barry, finalista al Man Booker Prize. Maurice e Charlie sono tipi rudi, tough, tosti, eppure anche ridicoli, buffi, degni di compassione e, perché no, di una risata. Maurice e Charlie ora non intimoriscono più nessuno. Laggiù, dove l’Europa comincia o, a seconda delle intenzioni e delle prospettive personali, finisce, i due uomini sono sulle tracce di Dilly Hearne, la figlia di Maurice. Tracce? In realtà, la presenza in terra spagnola di Dilly, convertitasi da anni alla filosofia di vita dei punkabbestia, perroflauta in idioma castigliano, è indicata da vaghi, vaghissimi indizi. Forse, nemmeno Maurice e Charlie sanno perché sono lì, al margine di una grande reminiscenza.
L’influenza di Samuel Beckett è evidente, tanto nella costruzione dei due personaggi, chiaramente identificabili in virtù dei difetti che li accompagnano, palpebra semichiusa per “Moss”, ginocchio sciancato per Charlie, quanto nel ritmo e nella logica sconclusionatezza dei dialoghi. Kevin Barry omaggia, con divertita leggerezza, il genio del grande drammaturgo. Né deve sfuggire la volontà dell’autore di inquadrare l’immobilità degli avvenimenti nella cornice delle classiche twenty-four hours di joyciana memoria (a proposito di Ulisse: nell’Inferno, canto XXVI, Dante condanna la sua follia legandola all’infrazione della proibizione divina di varcare le fatidiche colonne d’Ercole, Gibilterra appunto). Un’opera irlandese a tutto tondo, quindi, capace di mutare dal tragico al comico, dall’umoristico all’epico nel breve volgere di un capitolo.
Maurice e Charlie, per loro stessa ammissione, appartengono a un’epoca tramontata, a suo modo romantica, quando tra Europa e Africa il contrabbando era solo un affare di droga e non una tratta di esseri umani. Soci e rivali, amici e scomodi compagni di strada, i due si sono contesi negli anni una donna bella, folle e terribilmente pallida. Ci pensi a Cynthia, Maurice? Cerco di evitarlo. A volte lei mi attraversa. Il persistente, vorace ricordo di Cynthia, la madre di Dilly, si insinua nella teatralizzata quotidianità di un luminoso 23 ottobre speso inutilmente al porto, tra gente incastrata nei rivoli di un eterno via vai. Il dubbio morde Maurice e Charlie nella carne viva. Chi, tra i due, è il padre della ventitreenne Dilly, ragazza ribelle che, si immaginano, prima o poi passerà davanti a loro con un’inconfondibile acconciatura dreadlock?
L’autore alterna due linee narrative: l’attesa quasi metafisica di Algeciras cede il passo alla rivisitazione drammatica, da crime story, di episodi irrimediabilmente passati, vicende che hanno lasciato in eredità sfregi e cicatrici. La quiete statica del presente si infrange contro l’inquietudine elettrica delle avventure trascorse, così lontane, così vicine. Ecco apparire nel racconto, concreta ed eterea, la coppia aperta a mille divagazioni, segnata dalla tossicodipendenza, centrifugata dagli eventi: Maurice e Cynthia, colti nella parabola discendente del loro infuocato rapporto. Maurice e Cynthia, posseduti da un vitalismo malato, sono condotti da una forza esterna oltre la linea d’ombra di investimenti rischiosi.
Le nove case a schiera, le avevano chiamate Ard na Croí. Aleggiavano sopra il paese, il freddo porto. Non le riuscivano a vendere, le case – la catena di malasorte non si arrestava. Erano deserte, a parte loro tre. Occupavano l’ultima della fila, la numero nove – e la mattina lui si sedeva a sorseggiare il caffè dalla tazza di Tangeri, guardava la vecchia montagnola e quella respirava. Ne era convinto. Era un inverno vivido e luminoso, lassù di alberi non ce n’erano, ma gli uccelli si facevano vedere sullo sfondo spoglio e roccioso anche nei tempi duri, un gruppo di fringuelli lucenti attraversavano il grigio svolazzando come pietre preziose rosse e dorate, ed era meraviglioso, e lui non lo sopportava più.
Paesini di montagna andalusi affogati nella solitudine, scogliere irlandesi prigioniere di maledizioni, spiagge deserte abitate da figure sinistre, bettole di quarta categoria infestate da pirati dell’entroterra, gelidi, tumultuosi mari pronti a ingoiare desideri e speranze: Kevin Barry costruisce L’ultima nave per Tangeri, nostalgica opera noir, apponendo un quadro narrativo all’altro, in un susseguirsi di situazioni rapidamente delineate con scabro vigore espressivo. La sua scrittura ispirata, evocativa, lirica, proietta tutto all’esterno, privilegiando lo scambio dialogico secco, la battuta che implode su se stessa, il gesto tragico e, in parallelo, l’atto mancato. I passi di Maurice e Charlie, uomini destinati a fallire, si inceppano, di continuo, nell’ingranaggio di un “falso movimento” (le suggestioni wendersiane non mancano). L’antipatia dei protagonisti verso Thom Yorke svela, per contrasto, la prossimità della prosa di Barry alle atmosfere musicali dei Radiohead.
Il caldo era religioso. Nei canali del suo corpo c’erano oscuri rumori. Scorbutici corridori in coppie fisse percorrevano tutta la passeggiata. Ascoltava la vecchia città lavoratrice di Malaga e le sue campane cattoliche, i suoi cattolici silenzi. Strizzava gli occhi per accogliere la vastità sopra di lui. Oh, guarda il cielo bianco e azzurro sopra di me – forse dovrei rivolgergli le mie confessioni.
Nella testa di Maurice, sepolta da qualche parte sotto strati di oblio, dopo lo shock alienante del ricovero nell’ospedale psichiatrico (dove lui e Charlie condividono, misteriosamente ma non troppo, la stessa stanza) e la fase della disintossicazione, c’è ancora Karima, l’amante accogliente e pericolosa dei lunghi mesi spagnoli, vissuti in uno stato di cattività irrisolta, di sospensione febbrile, Karima dagli occhi verdi e dall’incauto sorriso, socia d’affari, maga, incantatrice, compagna provvisoria. E nel racconto riaffiorano, come dadi gettati sul tappeto verde del tempo, gli sgarri tra malviventi, il timore dei pedinamenti, i regolamenti di conti evitati per un soffio, gli incontri di un giorno, i vacillamenti di un attimo. Quante e quali esperienze qualificano la storia di un uomo? Per Maurice la risposta è semplice: frenetiche iniezioni al braccio e alle gambe, ubriacature selvagge, sesso a caso. E poi, le visioni, i rumori sprofondati nei recessi della sua coscienza, facce silenziose illuminate dal treno della sera, le volpi che urlavano di notte.
Maurice e Charlie non hanno più niente, a parte Dilly, a dividerli e ad accomunarli. E lei compare, silenziosa, inavvertita, nella sera autunnale di Algeciras.
Entra e scende rumorosa gli scalini di ferro verso la sala del traghetto, ed è consapevole degli sguardi che attira mentre passa. Sfodera un’espressione per cui nessuno, ma proprio nessuno, si avvicina alla ragazza magra con i capelli corti e ossigenati.
È vera, o è solo un’illusione partorita dal rimorso, una malinconia materializzata nell’aria, un fantasma, nella migliore tradizione d’Irlanda, terra fiera dei suoi diavoli sorridenti, delle sue rocce parlanti? E se Maurice, in quell’alba ancora acerba, avesse davvero spinto l’auto tra le acque di Cametringane?
La lunga notte si abbassò fino alle ultime tacche della sua colonna vertebrale – la notte lucertola – e se accendessi il motore, e lasciassi semplicemente andare la macchina, allora tutto questo finirebbe in fretta.
Ci andremo, Dilly?
Dove papà?