Ventitré ventitré ventitré, La Peppina la fa il caffè diranno i lettori rimasti a casa con qualche lacerto di ricordi infantili e niente aria condizionata a fantasticare primavere e autunni, soprattutto autunni, old-fashioned quelli con pioggia, foglie morte qui se ramassent à al pelle, suishh di pneumatici su asfalti fradici e impermeabili molti impermeabili. Il caldo infuria, il pan non manca, ancora, la terra arranca, però non migliora; e intanto chi che è già in ferie e se appena appena ha un pelino d’occhio per le tragedie si aggira stralunato tra consuetudini di festa ma… Il popol de’ vivi s’addorme…/O falce calante qual mèsse di sogni/ ondeggia al tuo mite chiarore qua giù! Insomma oracolo per oracolo, responso per responso annuncio per annuncio da settembre 3, 2019, sempre che sia vivo l’ElzeMìro e in buona salute proseguiranno le puntate di Olio di lino e poi e poi e poi a ottobre e oltre, altre storielline. Con l’ultimo dì di questo mese in corsa, s’arresta invece questa sorta di fantasiosa antologia delle prime, pubblicate nel 2017; non è detto che siano uguali uguali. Magari chissà. Belle cose. L’ElzeMìro.
El general Belgrano, cronache d’incrociatori
Difficile indovinare perché… e da quale e da quanto risentimento della propria nazione interiore mosso, perché un uomo avanzato negli anni con immaginabile prudenza, corazzato nel suo cappotto blu marino, eredità al vederlo di un suo o non più suo remoto evo più che di un avo, liso il cappotto e forse anche l’uomo al bordo delle maniche, così da mostrare sotto il blu il bianco del fusto, bavero aperto sul pavese di una sciarpetta impettita, cappello a tesa stretta di lana cotta chiara in capo perché, quasi fosse votato ad essere bersaglio di frecce sinistre e roventi, modernità o alterità chissà perché dunque, e da che cos’altro infine se non da un suo motore immobile quell’uomo sia stato spinto a muovere dalla fonda di un probabile quanto passabile condominio ai rivi scoscesi di un largo prato brinato, dalle basse e dall’alte maree e dalla secche di un indicibile rammarico a una pallida plata sotto lune d’argento sì ma, frigide… Difficile indovinare perché, risponderà interrogatosi da sé il poliziotto all’osservare quell’uomo, affondato nel fosso là in fondo, alla fine del prato.
Il due di maggio del millenovecentottantadue, alle 15:57 ora delle Falkland, sui bordi del basso fondo di Burdwood, 200 miglia incirca a sud da quelle isole, carichi ognuno di 363 chili di ciclotrimetilèn-trinitroammìna-trinitrotoluène-alluminio, nome commerciale Torpex, il sottomarino inglese HMS Conqueror lanciò tre siluri MK4 contro l’incrociatore leggero General Belgrano, in capo alla formazione navale 79.3 dell’Armada Argentina. Dei tre si sperse il primo ordigno, un altro colpì la prua del General Belgrano ma la corazza interna resse, come freccia rovente gli s’infilò nel fianco l’ultimo che al deflagrare polverizzò la sala macchine e la mensa e un’eruzione salì dritta in coperta, dritta per una voragine di fiamme e di ferri; col fumo incandescente si fuse la densa notte australe e il buio mare aperto irruppe nella nave. Alle 16:24 l’ordine di abbandonarla.
Trentasei minuti dopo, il General Belgrano filava a fondo per quattromila metri e là, a 55°24′S., 61°32′W, qualcuno li cercasse, ne troverebbe ancora i resti, d’acciaio e forse d’ossa. Morirono uomini 323, 772 furono salvati in mare. Le due mascotte di bordo, un cane e un gatto, cieco di un occhio questo, che nella mensa vuota si rallegravano della loro pappa, evaporarono con i cuochi su su per i ponti e oltre verso le indomite stelle.
Algoritmi sul tema dell’anguilla
Algoritmo, gran bella parola,
e dir non si sa la fine che avrà;
un calcolo, un bandolo; la spola
corre ed arriva là dove vorrà…
Nell’età delle sciocche certezze giovanili, per un anguilla intendiamo, tra valli d’acqua salata né di té né di mé, appunto sguazzava un’anguilla, per nulla curiosa di ieri, domani o di se finché, s’imbatté in un girino. Al vedere l’anguilla, la sua negra scucchia, il corpo di serpe mancata, il fare degli occhi da stupida, minacciosi perciò, il girino si sentì divorato; ebbe però il guizzo di guizzare indietro e lanciò un grido soffocato; gli strilli dei girini sono a loro misura e gridare, a pelo d’acqua o sotto, non è comune quanto nel deserto; Oh mari a me, implorava fuggendo, Un drago; e fuggendo sparì. L’anguilla fu tanto sorpresa da quel chiamarla drago che lasciò lì di inseguire a papparsi il girino, si fermò anzi a specchiarsi nella propria fantasia, la interrogò, si vide immensa e minacciosa, s’ammirò e si rispose, Un drago per l’appunto, un drago come solo i cinesi sanno immaginarne. Incurante dei pericoli che anche un quieto padùle può rivelare più che nascondere, l’anguilla si esercitava tra le canne a soffiare fiamme come ogni drago sa, senza successo ma fiduciosa che la costanza l’avrebbe premiata. Distratta così, finì di lenti e lónfi ambipèdi nella trappola, si stupì, s’indignò di tanto sfrontato ardimento. Aggrovigliata tra altre anguille, sargassi viventi nel condominio scomodo di un’affollata vasca, non perse il tempo per osservarle, non draghi, non mostri le sue sorelle lì intorno; Checché, si disse l’anguilla, Fatta non fui al viver d’una vasca; e di cozzo dando col muso nel vetro, vide riflessa d’appresso alla sua, una corolla di nere facce e sghignazzi, un drago invero, che la osservavano da dietro. Io, io sono un drago, strillò, frustando con la coda l’acqua per scacciarle, soffiando forte assai, convinta si capisce, che di sue fiamme l’ira fosse l’ora. Ma si sfinì, sfiatò, morì. Allora, Ben le sta, schioccò con la propria una coda di parole serpentine la più anziana e imponente tra le anguille e, sfilando tra loro con ducale sussiego disse, Povera sciocca non sapeva, che io, io sono un drago; io
… Se al forno oppure in tegame che cosa n’è stato
della povera sciocca che perse il suo fiato?
E dell’altra la grande della vasca duchessa
che cosa ne fu, fu fritta, impanata oppur lessa?