L’ElzeMìro – Favolette brechtiane-La disavventura di Pommesfrites giardiniere

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C’era una volta e ci sarà ci sarà per altre due e tre eh eh, c’era una volta un giardiniere. Egli viveva in una città così appollaiata sulle colline di un gran fiume e così fiera da chiamarsi da sé Villalumièra; per dare a intendere che spandeva luci schiribillanti a saettare per le sue strade e per esteso sull’universo mondo. Il giardiniere si chiamava Pommesfrites che in lingua franciliana viene a dire patate fritte, piatto di cui l’uomo era ghiotto fino all’ingordigia, dato evidente del suo girovita – più che un giro una passeggiata – e dai punti neri che gli affliggevano soprattuto il naso; lui per la vergogna pazientava allo specchio a sprizzarne fuori il vermolino grasso; quelli sparivano per un po’ poi ricomparivano. Se Pommesfrites fosse davvero il suo nome o  il suo soprannome – voi piccoli lettori ormai dite nickname – bè nessuno ebbe mai modo di saperlo, perché Pommesfrites viveva in quella città, e nel giardino di cui aveva la cura, da sempre, e nessuno fu mai in grado di stabilire se questo sempre fosse incominciato quando e come; qualcuno suggerì che il giardiniere fosse lì solo da tanto tanto tempo, ma poi da dove fosse partito questo tanto tanto tempo vattelapesca; il tempo del resto si sa che sta mai fermo. Pommesfrites amministrava il famoso Giardino delle piante del Re. Il re si chiamava Luigi, Luigi Numerato perché invece del cognome, al nome seguiva un numero, stravaganze di monarca che come tutti i re ingombrerà questa favola. Ebbene, dire di un giardino che è delle piante direte cari miei che è ovvio; che si sappia non esistono giardini dei tubolari in ferro, anzi tutti sanno che i tubolari in ferro non vengono su dalla terra; questo nonostante quella poesia che canta, Il dio che il ferro fa germogliare… ma è ovvio che si tratti anche qui di un perdirlacosì di poeta.

Dunque il giardino del Re era popolato da piante. C’erano le Firmiane e  le  Ibiscus, le Asparagus e le Sedum, le Quercus Ilex e non Ilex, c’erano la Cedrus Libani ovvero Cedro del Libano, e le Prunus cerasus nelle varietà avium, amarena, austera, marasca, il ciliegio insomma, e tutte le Iris e i convolvoli immaginabili. Pommesfrites cresceva con cura ogni pianta medicinale, ne provava il dosaggio, i benefici, le ritorsioni, i pericoli; c’erano l’Atropa belladonna, la Datura Stramonium, e la misteriosa Jiaogulan arrivata da terre non ancora in possesso del Re. Gioco alle streghe, di sé diceva per ridere e non poteva prevedere se e quanto gli avrebbe potuto nuocere quell’umorismo. C’erano infine le erboline da cucina e non ultime le più rare e le più preziose rose – tutte femmine per gli antichi le piante, forse chissà perché le piante per l’appunto son belledonne –. Pommesfrites viveva con e per le piante del Re cui dedicava tutto l’affetto necessario alle piante; Esse non parlano, non vedono, ma sì sì si accorgono di tutto, diceva. Il Re più delle piante si compiaceva però nel mostrare al mondo, cioè agli ambasciatori di qualche piccolo paese ancora indipendente, che il suo dominio si protendeva non solo su oceani, deserti e fiumi lontani ma anche su quel mondo vicino di foglie, calici e frutti; in qualche occasione, insieme a una dama o a un damo, amava giocherellare ad Adama e Adamo nell’Eden, mai a Diana e Atteone. Per non stancare o ferire i preziosi piedini regali e ducali e principali il giardino era tappezzato di tutti i tappeti erbosi, muschiosi e sabbiosi immaginabili, e per rinfrescarli, i piedini, v’erano canaletti graziosi, alcuni dei quali anzi abbastanza larghi da navigarci con certe barchette chiatte e tanto leggere che la sola mano di dama o damo agitata nell’acqua come una pallida alga bastava a muoverla e a fermarla. Pommesfrites va sans dire amava il suo mestiere, non sapeva farne un altro né avrebbe voluto, amava le piante, le studiava, ne osservava e annotava i comportamenti convinto che non altrimenti da tutti gli animali e persino da qualcheduni uomini, le piante avessero un’anima, diversa ma propria al genere e alla specie. Pommesfrites passava ore, come un architetto, a disegnare lo sviluppo a tortiglione del tronco di molti tra gli alberi persuaso di poterne carpire la regola e che quel modo di salire al cielo fosse una scelta audace quanto astuta della pianta per sopportare il peso di sé stessa; i canapi da ormeggio del resto e le funi pei cantieri poi, erano o no costituite in trecce… la domanda retorica presuppone un sì e Pommesfrites, per diletto del suo spirito geometrico, si perdeva a indagarne teoremi e equazioni. Osservava il modo con cui le Lonix e e le Begonie buttavano il loro fiori in grappoli regolari e provò a calcolarne il metodo, che per conto suo chiamò a Broccolo.

Ebbene, come ogni bel 21 di Giugno, anche in quel 21 lontano l’estate arrivò e con l’estate, quando ognuno meno se l’aspettava, fuori dal sacco del destino cadde sulle terre la Siccità. I raggi del sole quanti sono, sembravano altrettante frecce incendiarie scagliate da quel dio crudele per puro ghiribizzo; come i bambini che fanno le bizze e non sanno mai l’autentico perché, se non quello di scrutare la resistenza dei genitori. Ora, di acqua il giardino aveva una riserva reale come nessuno in città, e poi s’è detto rivoli e chiuse per annaffiare con comodo dove si fosse voluto. Il giardino era poco più in alto del gran fiume che attraversava la Villalumiera, e un sistema ingegnoso di valvole e chiuse faceva salire anziché cadere l’acqua per le piante ma… Siccità prese a far scendere il fiume, ad asciugarne le rive, a formare spiagge di fango che mai si erano viste lungo gli argini e che col passare del tempo divennero spianate di un argilla secca e dura come un calcestruzzo. I pescatori raccoglievano più che pescare i pesci; quelli più abituati alle erboline in riva finivano per affogare in aria là dove avevano sempre saputo che c’era acqua, così  anche il sistema idraulico per il giardino delle piante del Re,  a un certo punto non pescò più. E, dopo aver esaurito tutta l’acqua dei rivoli e dei canaletti principali là dove le barche si erano insabbiate, le prue per sghembo tra le alghe che asciugavano ora al sole come al mare si vedono talvolta le meduse dai lunghi tentacoli – di cui tutti dicono, A che servono se non si possono mangiare –, Pommesfrites fu costretto a tirare secchiate  dalla riserva reale.

Anche il Re boccheggiava come un pesce, boccheggiavano cortigiani e parassiti, persino i pidocchi per dirla tutta, e i ministri della corona e gli accademici di pittura le cui tele seccavano prima di essere asciutte sicché il colore frrrr, via come polvere in terra; boccheggiavano infine guantai e farmacisti, macellai e pizzicagnoli, verdurai e prostitute – oops perdonate miei piccoli lettori, la mamma vi spiegherà – la cui merce si sfiniva nella fornace rovente di gonne e sottane e delle stradine più infami della città. Solo i profumieri facevano grandi affari ché per la scarsità d’acqua e per la moda di non lavarsi molto, distillavano in cambio enormi e costose quantità di profumi. Nelle campagne, i contadini non l’avessero mietuto per tempo, alla luce ultrice il grano sarebbe bruciato; le verdure cascavano in terra già cotte; solo i più accorti riuscivano a salvarli aspettando le notte per cogliere peperoni e fagiolini già quasi bollenti. O il caldo avrebbe ucciso i vendemmiatori,  la vendemmia che da secoli era di solito una festa con gran pranzo ad opera completa, si rivelò una gara notturna, a cogliere l’uva prima che fermentata sulla pianta diventasse uva passa.

Il Re che per l’antica abitudine dei Luigi Numerati di non guardarsi intorno vedeva sfiorire il suo giardino, e poco o nulla il resto del mondo, di tutto quel disastro prese a sospettare Pommesfrites. Fu quella frase, Gioco alle streghe, udita da un cortigiano e riportata a un altro e detta a una dama che gliela riferì ridendo che infastidì il Numerato e lo insospettì. Di tutto c’è una causa o una colpa perbacco, pensò con acume spiccio il Re, E come Dio è la causa di me medesimo… allora quel Pommesfrites potrebbe essere davvero chissà uno stregone, un cabalista, un calibano o un tedesco nascosto che vuole secco me e le mie more in giardino… urge indagare, disse il Re a sé stesso e ordinò alle sue guardie di arrestare il giardiniere, così che spiegasse come mai tutto il ben di dio che per sua grazia, sua grazia del Re, aveva piantato (ovvero per la precisione fatto piantare) stava rovinando in polvere e niente. Non meno preoccupato del Re era Pommesfrites; ben prima che il Re lo facesse arrestare, pur scrutando atlanti e facendo osservazioni del cielo, e calcolando e triangolando egli non si trovò né una spiegazione né una scappatoia a quell’orrenda siccità. E al re, benché intimorito dalle due guardie armate al suo fianco e che lo avevano incatenato da non fargli fare un passo per il peso delle catene, al re disse, Vostra Maestà mi dispiace ma questa iattura ha un nome solo, siccità e non si sa perché.

Quell’ovvietà dalla ragione oscura gli valse una cella ancora più oscura dove, a parte la puzza, si stava però come si dice al fresco. Non fosse stato per la sete e per il buio Pommesfrites vedeva in chiaro e ciò che vedeva gli piaceva poco. La riserva era asciutta e il re aveva dato ordine che nessuno bevesse altro che vino ( della vendemmia passata finché ce n’è) e che non ci si lavasse che col profumo o il cognac. Ordine che venne accolto con indifferenza, Mi sono lavato il mese scorso, via aspetterò, pensarono dame e cavalieri, ministri e consiglieri. Il re, dopo avere scartato l’idea di bruciarlo vivo, pensò che tuttavia la sapienza di Pommesfrites fatto il danno avrebbe trovato il rimedio sicuro. Così accompagnò Pommesfrites per le segrete del palazzo là dove egli potè ammirare la ruota uncinata, la scala per allungare, il tavolo con le morse e i cunei, i martelli per rompere, le tenaglie per tagliare e la fornace per attizzare fuochi assassini. Il giardiniere capì al volo che si metteva male e disse che certo sì avrebbe fatto di tutto, O non saresti strega mon chèr ami, gli disse il re tirando su col naso del tabacco per sopportare la puzza che veniva da lui stesso. Poiché fa novanta e anche di più Pommesfrites inseguito da una paura che andava ben oltre i limiti di velocità chiese di consultare i suoi libri di calcoli, poi ordinò certi prodotti di chimica  che bruciò a mezzanotte ma non successe niente. Le guardie gli diedero quattro cazzotti, di numero ma ben dati, così per gradire. Pommesfrites farfugliò che ci voleva e il tempo e l’occasione, citò Lucrezio in latino, la tavola pitagorica in greco e che gli incantesimi si chiamano così perché incantano, ma che la natura è dama ritrosa. Gli venne in mente di fare circoli magici, di strologare in italiota, accendere fiammelle, bruciare agli, spruzzare d’acqua rimasuglia  certi fiaschi vuoti, centinaia che fece piantare all’insù nella fanghiglia della riserva reale. Chiese centosessanta uova che fece friggere al sole cantando a cappella un teorema geometrico. Niente. Nient’altro che una dilazione alla minaccia di indicibili tormenti e di morte non avesse fatto obbedire la meteo ai suoi voleri, ovvero ai desideri del Re.

Poi in un notte di angoscia e frustrazione il povero giardiniere chiese che gli artificieri del re preparassero gran fuochi, che volassero il più in alto possibile, anzi precisò col calcolo che i razzi dovessero arrivare in altezza a piedi almeno 666 – ahi il numero diabolico – (metri 202,997) e che esplodessero con gran fracasso, il peggior fracasso possibile e con gran fiamme verdi come l’erba, blu come l’acqua e cristalline come la pioggia. Come fu come non fu lo spettacolo pirotecnico cominciò e con gran diletto, va detto, della corte e del Re stesso che era facile distrarre con qualche giochetto. Il giardiniere intanto, guardato a vista dalle guardie, scrutava il cielo vicino e lontano dal campanile della chiesa privata di sua maestà.  Fu così che dopo una buona mezz’ora tra i bómbiti e alla luce dei fuochi si avvide di una enorme massa di tutti i toni del grigio, gonfia e lievitata a puntino, che si spostava e agitava e ribolliva nella gran caldera del cielo come i panni nel ranno; un vento gelato prese a correre squadernando i tetti, all’orizzonte  lampi sempre più fitti, poi fulmini; con uno schianto uno colpì il parafulmine sopra il campanile, si divise in cento artigli fiammanti e aggredì tutti i parafulmini intorno, uno spettacolo nello spettacolo. E a quel punto, domanderete certo voi miei piccoli lettori, a quel punto si aprirono le cataratte del cielo. Si aprirono e piovve. Piovve sul re, sulla regina, su dame e damigelle, piovve sui tetti, nelle strade, nei campi, sui cortigiani, piovve su gatti e cani, sui cavalli, piovve sulla città tutta, nelle fogne, piovve nel fiume che cominciò a ingrossare e a salire e far salire l’acqua nelle condotte, piovve nella riserva, piovve su tutto, su ogni pianta e germoglio, piovve una notte e un giorno e il giorno appresso, poi per una settimana, poi per due, piovve a schiòvere e leggero, piovve per dritto e rovescio che alla fine tutti invocarono il sole, o quantomeno una pausa. Allora un vento moderato da sud-sud est disperse con grazia  le nuvole; tra le più belle in gara e con l’aria di voler chiedere scusa, sembrò a qualcuno, riapparve appunto il sole. Tutto tornò verde come prima, ovvero più di prima. E il giardiniere, domanderete in coro piccoli lettori, bè lui ottenne dal Re il titolo di barone, continuò a vivere per il giardino, a mangiare felicemente patate fritte o bollite e a spremersi i punti neri sul naso. Tanto poi ricrescevano.

Pasquale D'Ascola

Pasquale Edgardo Giuseppe D'Ascola, già insegnante al Conservatorio di Milàno della materia teatrale che in sé pare segnali l’impermanente, alla sorda anagrafe lombarda ei fu, piccino, come di stringhe e cravatta in carcere, privato dell’apostrofo (e non di rado lo chiamano accento); col tempo di questa privazione egli ha fatto radice e desinenza della propria forzata quanto desiderata eteronimìa; avere troppe origini per adattarsi a una sola è un dato, un vezzo non si escluda un male, si assomiglia a chi alla fine, più che a Racine a un Déraciné, sradicato; l’aggettivo è dolente ma non abbastanza da impedire il ritrovarsi del soggetto a suo Bell’agio proprio ‘tra monti sorgenti dall’acque ed elevate al cielo cime ineguali’, là dove non nacque Venere ma Ei fu Manzoni. Macari a motivo di ciò o, alla Cioran, con la tentazione di esistere, egli scrive; per dirla alla lombarda l’è chel lì.

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