L’ElzeMìro – Fablìole-Il citofono pirata

In apertura Nieces di Zoey Frank

È difficile dubitare che tutti sappiano che cos’è il citofono. Egualmente non è inutile rammentare che è composto da una coppia di parti distinte collegate tra loro da una conventicola di cavi murati. La prima, esterna al portone d’ingresso di un condominio aspecìfico, è costituita di una placca, metallica di solito, nella quale si trovano inseriti un microfono e un altroparlante celati dietro una griglia discreta, l’occhio di triglia di una telecamera e  una tastiera numerica con la quale è possibile comporre di seguito un codice di accesso, sorta di parola d’ordine attribuita a ogni appartamento, sia o non sia abitato; oppure una serie di tasti di chiamata cui sono conferiti tanti nominativi quanti sono i condòmini. Tu pigi tu chiami, qualcuno risponderà. La seconda ma non meno importante parte, interna a un appartamento egualmente aspecifico, è di solito rappresentata da una sorta di cornetta telefonica cui rispondere pronto o in caso di chiamata – ma va bene anche un piuttosto perentorio chi è –. Oggi la cornetta va via via scomparendo a vantaggio di più comode plastiche a muro, integrate di piccoli monitor, microfono e altroparlante collegati con l’esterno nel modo già accennato. Così in sintesi, al ricevere dal di fuori una specie di ruculìo di tacchino elettronico quale avviso di chiamata, il condòmino può non solo sentire chi chiama, per esempio corriere, ma anche vedere il chiamante, per esempio rivestito di una divisa riconoscibile o recante un pacco o una busta di eguale riconoscibilità; ma anche no, fatto questo che esige nel chiamato, a patto che sia  in condizioni di sicurezza, quella dose di fiducia nel prossimo che rende più facile il vivere civilizzato. Ah, è importante ricordare che tutto questo impianto reca a monte, ossia nella stazione ricevente domestica, un pulsante con cui, da remoto, è possibile attivare il relais che fa scattare la serratura del portone già ricordato, a vantaggio di chi volesse passarne la soglia; chiaro e dato per scontato, che l’impianto funziona in grazia dell’elettricità, alla tensione di 12 volts c.a. di solito, laonde il rischio di rimanere per qualche accidente fulminati è come la corrente stessa: molto basso per non dire inesistente.

Accadde ora in una notte nera e tempestosa come ormai se ne vedono poche ma poche, afflitti come siamo da questa perturbante alta pressione, tale che il cosiddetto bel-tempo è una nostra iattura quotidiana di sole e cieli azzurri e tramonti e stellate senza fine e di signore bronzee che ogni giorno è un che-bella-giornata. In una notte nera e tempestosa dunque, in cui le raffiche di pioggia a vento si scaraventavano, si dice a secchiate, su ogni strada della città e ogni campo fuori da questa, mettendo a dura prova la solidità di molti tra gli artefatti umani, pali, cartelli e cartelloni, aste di bandiere e pilastri dei tre ponti sul fiume cittadino per tanto questo ingrossava e schiumava come una fiera che li volesse sbranare quei pilastri, e infine anche gli alberi di più antica età e d’altra parte quelli più giovani; in quella notte allora, tra fulmini, rombi e saette, del tutto inaspettato suonò il richiamo del citofono in uno degli appartamenti del condominio – la cronaca è certa che si trattasse de lo dei giovani Spillenberghi-Schiaffi il cui recente nato bimbo affliggeva loro le notti non meno, in quel caso, del citofono –; fatto sta che erano le due e quindici della notte e fuori, è bene ripeterlo, regnava il caos cui la natura ama tornare, sendo che si tratta della sua condizione abituale. Lo Spillenberghi testimoniò che, appena riaddormentato dopo la terza poppata di Humana1 del piccino, a quel suono si destava all’istante, preso dalla volontà di lasciare riposare la moglietta Schiaffi; inconsapevole dell’ora, il giovanotto non aveva mirato all’orologio, nel buio dell’appartamento al 22° piano squassato a sprazzi dall’empito delle saette là fuori, meglio che potè egli raggiunse strisciando con le pianelle sui parquet di laminato fino al terminale del citofono situato in quel caso in cucina. Mmhhchièèè,  domandò con improvvisa contezza dell’ora segnalata dall’orologio del forno, Cchiè, ripeté con irritazione. Il monitor non rimandava nessuna immagine; dabbasso, la scena che la luce posta in corrispondenza della telecamerina illuminava alla bell’e meglio era una porzione di portone, e il muro di fronte alla bottoniera; e si vedeva la pioggia che arrivava per traverso ad allagare l’androne deserto ma, meglio che alla bocca della grotta di Polifemo, Nessuno sembrava avesse premuto il bottone Spillenberghi-Schiaffi, Nessuno era inquadrato dalla telecamera, Nessuno contestò pertanto al chi-è dell’altroparlante.

Il giovane Spillenberghi era troppo assonnato per far caso, bestemmiò l’anima di quella semplice tecnologìa, tornò a letto e si riaddormentò secco. Due ore dopo, e due ore dopo ancora sarebbe stato lo picciriddru a svegliarlo ma questo era nell’ordine naturale delle cose. A mattino fatto e imbambolati entrambi al tavolo della colazione, gli Spillenberghi-Schiaffi commentarono alle corte quel caso bizzarro, e lui spiegò alla propria giovane signora che chissà si fosse trattato di una scherzo dell’enorme carica elettrica, imbizzarrita nell’aria della notte appena passata; poi finì di assumere il suo caffè nero e lungo, i due corni della sua brioscia confezionata, un’ultima fetta biscottata con marmellata di fragole e poi, presa la sua borsa piena di cartigli di lavoro, baciò la moglietta in maternità e partì per un cantiere poco lontano: lo Spillenberghi, ingegnere edile, dirigeva i lavori per un nuovo condominio. Erano le sette del mattino e in quell’ora nell’appartamento del colonnello Torretasso squillò il citofono; il colonnello, impegnato in bagno, posò il rasoio e con la calma da condottiero al fronte, di cui si vantava in cuor suo, andò a rispondere alla chiamata ma: nes-su-no, che fosse maiuscolo, minuscolo o corsivo. Il colonnello non indugiò nell’attribuire quel dispetto alla tecnologìa di cui aveva fiducia sì ma con la cautela maturata dall’esperienza; e tornò in bagno a finire le abluzioni di rigore.

Dopo quella notte tempestosa il tempo non parve mutare indirizzo, la nubi sulla città erano spesse e cupe, piovve tutto il giorno appresso ma, diciamo, ora con la tranquillità di chi riempia una mezzìna alla fonte, ora con la veemenza di un idrante della polizia. Le auto irroravano poi al loro passaggio i passanti che inveivano per quell’improvvida doccia, e insomma acqua, acqua e galosce. Per tutto il giorno il citofono del condominio tacque, non passò né il postino a consegnare raccomandate, né il corriere pacchi, né alcun altro. Verso sera, anzi oramai a buio, la pioggia smise di cadere, benché il cielo restasse ingombro di nuvolaglia.

Un po’ dopo le una appresso la mezzanotte, simultaneamente furono due i citofoni a gorgogliare, uno al quinto e l’altro al piano terreno, quello della signora Ursìlia che, irritata pei suoi Pronto pronto chi è ma chi è e parla mannaggia a te  senza risposta, e senza che una testa si vedesse nel riquadro del piccolo monitor, andò risoluta a una delle finestre sul davanti del condominio, e che davano direttamente sull’androne del portone, si sporse più che poté, chiamò Chi è insomma fatti vedere impeccabile cialtrone (sic), convinta che qualche ragazzino o qualche balordo o qualche pusher, si stesse divertendo alle sue spalle ma: Nessuno, maiuscolo e corsivo. Il citofono al quinto piano suonò invece a vuoto, in quanto i signori Rondò, abitanti di quel piano, erano assenti giustificati da uno dei loro frequenti viaggi per turismo: nella fattispecie in Sud Africa. Alla signora Ursìlia invece quella chiamata senza corrispondente voltò all’agro la nottata, abbassò gli avvolgibili di metallo, al piano terreno ovvio, ne assicurò il gancio anti-effrazione al montante dell’imbotte, poi controllò che fosse ben chiusa la porta d’ingresso e le mise la catena. Restò sveglia per un po’ a leggere un libro giallo che tuttavia dopo qualche tempo  le scivolò dalla mani sul petto. La signora dormiva, dormiva profondamente quando di nuovo nella notte ormai stellata, squillò il citofono (così le parve, che il citofono suonasse con maggior fastidiosa baldanza). La signora sobbalzò nel letto, avrà a dichiarare, corse a rispondere e: Nessuno. Rimbambanìto , urlò la signora Ursìlia alla notte.

Ora qui ci sarebbe da osservare il comportamento in fin dei conti insensato di chi risponde a una chiamata notturna del proprio apparecchio nemmeno si trattasse di richiamo di campane alla messa. Ma così è: la sensatezza delle nostre azioni è sempre messa in forse dalle nostre reazioni. Venne pertanto l’alba e i citofoni tacquero tutti fino a metà mattina quando invece si destarono di colpo in ben cinque degli appartamenti condominiali e tutti nello stesso tempo, particolarità questa di cui i condòmini non potevano essere al corrente poiché non era scattato ancora il passaparola nel gruppo uozzapp condominiale. Scattarono i citofoni e tutti i cinque cittadini poterono constatare che Nessuno era inquadrato dalla telecamera del portone e Nessuno parlava al micro; Nessuno. La questione fu risolta per quattro dei cinque condòmini con un i soliti teppisti – teppisti riassume a senso quattro diverse e più grevi espressioni –; il quinto dei quattro, tale Frustolìni, gridò forte all’apparecchio, Fatti vedere negro.  Ma nessun negro si mostrò alla rabbia del signor Frustolìni.

Nel condominio prese a circolare e fu inoltrata alla c.a. dell’amministratore rag. Pavinato, la notizia di questi richiami citofonici. Seguì una replica del rag Pavinato che invitava tutti i destinatari della detta a segnalare qualsiasi altra manifestazione di auto-attivazione dell’impianto citofònico. Fu avvisata dei fatti la ditta installatrice, furono mandati due tecnici, fu controllato tutto l’ambaradàn da un capo all’altro della sua rete. Non fu riscontrato alcun difetto strutturale o anomalia funzionale. L’impianto fu dichiarato di nuovo a norma – dizione sia detto sotto la quale si può celare qualunque incompetenza – e funzionante. Ma dopo quella revisione tecnica, nella notte stessa successe di nuovo il caso. Questa volta al primo scattare di un citofono ne seguì un altro e un altro e un altro, un altro, altro e altro, questo più e più breve, quello più e più lungo o ripetuto o rubato in un alternarsi di pause, sincopi e legati che a un osservatore neutrale, posto a debita distanza dal condominio, sarebbe sembrato un disegno di stampo melodico: una semplice linea, simile a quella che eseguono certe batterie di campane per richiamare, dai loro petulanti campanili, i fedeli di provincia alle loro abluzioni spirituali.

Non è possibile e sarebbe noioso elencare i nomi di quanti subirono, in questa terza ondata, il richiamo del citofono. Tutti risposero pronto, o con qualche alternativa sììì allooora èhhh. Tutti dall’altra parte sentirono: Nessuno. Non furono richiamati invece i primissimi otto destinatari – o vittime – di nessuno; in compenso però, tutti e otto dovettero affrontare le fatiche e i disagi di un forma violenta di influenza da cui si rimisero tuttavia, ma con grande fatica e triboli. Che relazione ci fosse tra l’influenza e il trillìo anteriore o interiore dei loro citofoni non solo è impossibile stabilirlo ma è impossibile stabilirlo perché una relazione di causa/effetto non ci poteva essere. Noto è però che dopo il grande scampanellare seguente, uno dopo l’altro gli altri condòmini, e nell’ordine con cui avevano sentito la chiamata a vuoto del citofono, tutti quanti essi morirono. Questa per un motivo, quella per un altro ma intere famiglie furono sterminate senza motivo apparente. Le autorità hanno aperto un’inchiesta a tutt’oggi aperta.

Schermata 2017-05-09 alle 10.56.35In apertura Nieces di Zoey Frank

Pasquale D'Ascola

Pasquale Edgardo Giuseppe D'Ascola, già insegnante al Conservatorio di Milàno della materia teatrale che in sé pare segnali l’impermanente, alla sorda anagrafe lombarda ei fu, piccino, come di stringhe e cravatta in carcere, privato dell’apostrofo (e non di rado lo chiamano accento); col tempo di questa privazione egli ha fatto radice e desinenza della propria forzata quanto desiderata eteronimìa; avere troppe origini per adattarsi a una sola è un dato, un vezzo non si escluda un male, si assomiglia a chi alla fine, più che a Racine a un Déraciné, sradicato; l’aggettivo è dolente ma non abbastanza da impedire il ritrovarsi del soggetto a suo Bell’agio proprio ‘tra monti sorgenti dall’acque ed elevate al cielo cime ineguali’, là dove non nacque Venere ma Ei fu Manzoni. Macari a motivo di ciò o, alla Cioran, con la tentazione di esistere, egli scrive; per dirla alla lombarda l’è chel lì.

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