
Autore: Isidoro Meli
Data di pubbl.: 2016
Casa Editrice: Frassinelli editore
Genere: criminalità organizzata, Mafia, narrativa contemporanea, narrativa moderna, Palermo
Pagine: 216
Prezzo: 17,50 €
La prima bozza di questa recensione/intervista l’ho scritta a mano perché, dopo l’incontro con Isidoro Meli, mi è venuta un’incredibile voglia di partecipare a quel lavoro scomodo e faticoso, quel “rapporto fisico con l’oggetto” che è, secondo lui, la scrittura. Perché Isidoro Meli i suoi libri, almeno in prima battuta, li redige a penna oppure a macchina. Era dai tempi dell’Università che non scrivevo a mano qualcosa di più lungo di un bigliettino d’auguri (le lettere d’amore esistono ancora? mi chiedo) e ho ricordato la fatica e capito cosa intendesse Meli quando parlava di sana autocensura: la penna, il foglio, la postura necessitano di energia e impegno, non li si può sprecare per scrivere sciocchezze.
Quindi, con una buon numero di idee cassate sul nascere e un’ansia da prestazione alle stelle (Isidoro Meli ti mette alla prova, sapevatelo) cerco di raccontarvi cos’è La mafia mi rende nervoso e chi è il suo autore.
Partiamo da lui, Isidoro Meli, che Frassinelli ci ha fatto incontrare in centro a Milano, in una pausa pranzo di calura e sciopero. Allora, leggendo un romanzo si cerca sempre di capire chi ci sia dietro, a volte si ha anche la presunzione di conoscerlo, lo scrittore, ma poi si scopre che non può esserci una totale aderenza tra ciò che una persona scrive e ciò che è. Vuoi che si tratti del suo romanzo d’esordio, fatto sta che il Meli che hai di fronte a bere uno spritz è lo stesso che ti trovi tra le pagine del suo romanzo. Te ne accorgi subito quando inzia a parlare: la lingua che sceglie per raccontare la storia di un portapizzini muto e analfabeta (Tommaso), è quella che usa per esprimersi nel quotidiano, diventa funzionale alla vicenda che racconta ma rimane assolutamente autentica. Non è una patina modaiola, che banalizza più che arricchire, ma l’unico modo in cui tutta la faccenda di Tommaso poteva (doveva) essere narrata, con la sovrabbondanza di spaparanzato, buttana, raggia e compagnia bella che necessitava. L’incontro mi ha confermato ciò che già pensavo: uno scrittore autentico, fintamente presuntuoso (sempre meglio che falsamente modesto) e con tante cose da dire a modo suo.
La storia merita: Tommaso, che si finge muto e scemo, fratello di uno – invece – assai sveglio e abile spacciatore, viene assunto dalla mafia come portapizzini. Il suo piano è vendicare il padre (che di mafia perì) e lo fa introducendo un elemento di disorganizzzazione in quel meccanismo che agli occhi del mondo pare funzionare benissimo. La mafia, però, come ogni cosa nata dagli uomini e come “istituzione” per di più italiana, non può funzionare bene. È pressapochista, distratta, fondamentalmente antica o meglio arretrata. Isidoro Meli riversa in questo romanzo ciò che più odia: i qualunquismi, i discorsi triti e ritriti sull’efficienza di Cosa Nostra, i luoghi comuni di cui è infarcita buona parte della letteratura – che non sopporta – sull’argomento. Da qui nasce l’idea di ridicolizzare ciò di cui giammai la gente per bene riderebbe.
E l’espediente che usa per attuare il suo piano (dimostrare che anche la mafia è fallace) è raffinato ed elegante (lingua a parte, s’intende). Anzi, teatrale. Immaginate una commedia degli equivoci di plautina memoria, personaggi con caratteristiche al limite del macchiettistico, nomi che ricordano aggettivi ed esprimono caratteristiche, con momenti di poesia del tutto inaspettati.
Tommaso, giusto per farvi un esempio, finge di essere muto e stupido: questo oltre che essere un espediente narrativo, è un riferimento all’uomo tragico menomato (pensate a Tiresia) a cui gli dei hanno tolto qualcosa (la vista) per o meglio a causa del dono che possiede (la veggenza). Tommaso si nega la parola, finge di non saper leggere, ma vede, capisce e agisce molto meglio degli altri.
Come il ritornello di una canzone popolare, ironico, distaccato, ritorna il fastidio del narratore che si ripete in un “la mafia mi rende…” dalle molteplici varianti. Perché la mafia rende anche omeopatici. O antipatici. Non è il caso di Meli, a cui il talento e l’ironia non mancano.
In chiusura: sullo sfondo alla storia c’è una Palermo che mi è sembrata una persona, odiata e bistrattata dall’autore, un’ex amante che lo ha tradito e messo alla berlina. E lui la odia, senza smettere, però, mai di amarla.