Titolo: La civiltà dello spettacolo
Autore: Mario Vargas Llosa
Casa editrice: Einaudi
Traduzione: Federica Niola
Genere: saggistica
Anno di pubblicazione: 2013
Pagine: 192
Prezzo: 17 €
Sicuramente ognuno di noi si è trovato almeno una volta ad ammirare le opere di qualche artista contemporaneo chiedendosi se il non cogliere la bellezza dell’opera facesse di sé un ignorante o una persona perfettamente nella media. O si è trovato ad ascoltare le notizie di un telegiornale pensando se proprio non ci fosse qualche tema più importante da discutere e sul quale essere informati. Poi, in entrambi i casi, probabilmente abbiamo dimenticato la cosa con indifferenza o sufficienza. Sono questi i problemi?. Lo sono: “è diventato tutto possibile nell’ambito della pittura e della scultura, persino che un magnate paghi 12,5 milioni di euro per uno squalo conservato in formaldeide dentro un recipiente di vetro e che l’autore della trovata, Damien Hirst, sia oggi ossequiato non come lo straordinario venditore di fumo che è, ma come un grande artista del nostro tempo. Magari lo è, ma questo non getta una luce positiva su di lui, bensì molto negativa sul nostro tempo” (pag. 35).
Quando si legge La civiltà dello spettacolo si viene facilmente pervasi dallo stesso fervore che anima Fantozzi (erroneamente nel suo caso?) verso la corazzata Potemkin. Opere superbe o solo abbassate alla nuova asticella cui l’arte viene relegata? Informazione impegnata o giornalismo light fedele alle richieste del mercato? Sesso mercificato o sano erotismo passionale? Dov’è finito il confine tra cultura e incultura?
Vargas Llosa risponde e lo fa a suon di cannonate. L’inizio è a dire il vero tranquillo, con inquadramento del libro nel contesto letterario dei saggi sulla cultura: poche pagine che delizieranno più gli addetti ai lavori che il lettore occasionale, ma probabilmente necessarie. Analizzando gli scritti di chi ha affrontato la questione in precedenza, infatti, l’autore non fa altro che descrivere le prime pistole, i particolari dei primi fucili, le imperfezioni e i meriti delle mitragliatrici che l’hanno anticipato, poi, da pagina 23, passa al cannone e non lo abbandona più fino alla fine del libro.
Con deduzioni argute, un incedere impregnato dal principio di causa-effetto e un linguaggio tagliente e feroce, Vargas Llosa passa in rassegna ogni ambito in cui la parola cultura è radicata (e il lettore che ritenga erroneamente la cultura sinonimo di quantità di conoscenza scoprirà invece quanto essa sia qualità di vita, della nostra vita). Dall’erotismo alla letteratura, dalla musica alla politica, dalla religione al cinema, fa letteralmente a brandelli il velo che negli ultimi decenni stanno sempre più stendendo massificazione, banalizzazione e frivolezza, le principali antagoniste della cultura. Il saggio è tutt’altro che delirante, anzi, il pregio è proprio quello di essere impegnato e calato nella realtà mondiale odierna, chiamando in causa personaggi come Bin Laden e Carla Bruni, e in situazioni trasversali che ognuno può riconoscere quali appartenenti al suo tempo e al suo Paese.
Una spirale di parole che ad ogni giro sceglie un ambito nuovo e finisce sempre col mostrare come “non essendoci modo di sapere che cosa sia cultura, tutto lo è, e niente” (pag. 54), precipitando sempre più. La ripetitività del concetto è stressata fino all’ossessione, ma volutamente, per inculcare nel pubblico la gravità del tema e del momento.
Chi si aspetta un capitolo finale salvifico resterà deluso. In realtà Vargas Llosa, in questo saggio che a tratti somiglia di più a un flusso di coscienza collettiva punteggiato, lascia qua e là indicazioni preziose su cosa si debba fare e su quali responsabilità abbiano i depositari della cultura. E proprio per questo, forse, non dedica un capitolo intero ai rimedi, forse per evitare che da lettori passivi subiamo ancora una volta ciò che ci viene propinato senza un nostro originale pensiero critico. C’è da rimboccarsi le maniche, a partire proprio dalla lettura che tanto amiamo.