
Autore: Pietro Romano
Data di pubbl.: 2018
Casa Editrice: I Quaderni del Bardo edizioni
Genere: Poesia
Pagine: 71
Prezzo: € 10,00
Fra mani rifiutate di Pietro Romano è il secondo titolo della Collana di poesia “Zeta”, curata dal poeta e critico letterario Nicola Vacca per la casa editrice salentina “I Quaderni del Bardo” di Stefano Donno. Chi ha letto la prima pubblicazione, Lampi di verità del poeta e artista ciociaro-milanese Donato di Poce, avvertirà una continuità di metodo nel processo di selezione dei testi. Nicola Vacca predilige autori in grado di scavare “nelle stanze della poesia con l’intenzione di stabilire un contatto con le parole”, come recita la bandella editoriale del libro di Pietro Romano, compilata dallo stesso curatore. La poesia, in questa ottica antiaccademica, vive di creazione e non si adagia sulla mera descrizione dell’esistente, vibra di passione civile ed è spietata nell’analisi del proprio tempo. Soprattutto, non si smarrisce nel labirinto di finzioni autocelebrative. Il terzo titolo, Non so, del modenese Nicola Manicardi, in uscita nelle prossime settimane, sarà l’ulteriore conferma di tale urgenza di verità espressiva.
Pietro Romano, palermitano, ventiquattrenne, si è laureato in Lettere con una tesi su Giuliana Saladino, giornalista de L’Ora, impegnata nella denuncia del fenomeno mafioso e indagatrice della condizione femminile in Sicilia. Fra mani rifiutate si apre, in epigrafe, con versi tratti da La carne dell’orso di Primo Levi, un richiamo a quella “condizione umana più antica”, a quel ritrovarsi “soli davanti alla pietra cieca e sorda, / senza altri aiuti che la propria mano e la propria testa”. È una traccia per entrare nella poetica sensibile di Pietro Romano: un viaggio di scavo, dentro di sé, lungo sentieri in penombra, dove la coscienza cede al pungolo della domanda e si leva di dosso l’armatura di vetuste certezze, per scoprirsi nuda, sguarnita, davanti alla meraviglia terribile del reale. Sono versi liberi, di lunghezza variabile, caratterizzati da una musicalità inquieta e dall’insorgere di trame emotive, che incidono sulla scelta delle parole e sugli accostamenti verbali.
Perché scrivere?, si chiede in apertura il poeta. “Forse, perché l’essere qui, con occhio appannato, / è molto, non mancanza”. L’imperfezione è un dato ineliminabile, una categoria, un varco trascendentale per giudicare/pensare il mondo. Da questo segno di frattura il poeta risale lungo la parabola dell’esperienza, per accordare il nerbo dell’espressione. “A voi voglio mostrare / come nostra, candida, innocente, diventi / la parola. Dicibile, chiunque alla fine / noi siamo”.
La parola, appunto, evocata da una biro nera sul tavolo, a guisa di miracolo, affrontata nel diverbio, in un tu personale: “mi orienti”, “mi tranci”, “mi scheggi”, “sei linfa che cola su spoglie pagine bianche”. Parola che accade sulla lingua, nel suo spezzarsi, parola-cerniera di assenze, che “mi svela il suo disarmo di fiore”. La prima sezione della raccolta, Antenata, designa la posizione del poeta, erede di qualcosa che lo precede, il logos, il verbo, la parola originaria, appunto, che s’insinua nei silenzi del mondo, poi impoverita d’essenza nella generazione babelica di parole (al plurale), non più “all’altezza del presente”. Il poeta, sentinella del vero, si pone in ascolto della “polvere dei crolli”, che esonda e si deposita “nel disordine delle vene”. L’autore chiama a raccolta un Io frammentato, “sparso in corridoi, piazze e mercati”. Nel qui-e-ora dello spaesamento individuale e collettivo, il poeta combatte una guerra contro lo stigma di una lingua disseccata. “Ho il cuore affollato / di rumori di acque e di venti, / di voli di colombi e di rondini, / di campane e vecchi di paese”, e ancora: “Mi riconosco in nubi di polvere / appena sottili, in amore sbriciolato / a ogni scricchiolio del corpo abbracciato / al suo regime”. Si affaccia un desiderio di ricostruzione di sé, dei rapporti, contro l’assillo del giudizio (pre)scritto nel nome. Tra i versi filtra una nostalgia dell’indistinto, l’esigenza di una meta oltre il disamore. È una “migrazione dell’inquieto”, un approdo cercato dopo un lungo esilio. “Appartieni e non sai dirlo”.
Nella seconda sezione, Amare oltre abbracciandosi dal di dentro, l’autore, dopo il rovello dell’Io ed il cimento con l’arché della parola, allentato il cappio della lotta, assicurato il minimo conforto di un respiro, si apre, e si espone al rischio della ferita. La memoria punge le emozioni, vaglia un possibile punto d’incontro ove il poeta possa restituire affetto, donare contatto. “Sento di doverti una carezza che resista / come lingua tra i denti e viva. Dalle arse pianure della coscienza stillano gocce di paura e desiderio. Le assenze riflettono la presenza di mondi incagliati, di amori appesi al filo dell’orizzonte, sotto un “cielo di fuliggine” o l’occhio cieco di un faro. Luoghi materni, spazi intimi e zone fisiche: il poeta sperimenta vuoti, distanze, si appella ad un “Dio che non so”, squadernato nell’enigmaticità di elementi reali e metaforici che scuotono domande. “Eterna è la morte / o la vita che non dura?” La poesia coltiva un germoglio di speranza sotto la coltre del gelo. “Inferno o inverno / poco importa, / tu sei la sola verità / che ancora resiste”. Il dialogo interiore è condizione per Amare oltre: “Per te, pianta che prodighi semi e cresci / nell’orecchio di chi ti ascolta: mi converto, / per frantumi di quiete, in temporale”. È uno sciogliersi dalla totalizzazione del senso, un farsi altro con e per i versi, soffiando la parola nella “fucina del sogno”. La poesia deflagra in abbraccio, là dove il poeta si attendeva: “Culmini in me / nel tremore di una carezza”.
Nell’ultima parte della raccolta, La poesia sparpaglia gli occhi nel mondo, finalmente la luce, dall’interno, invade le crepe, a illuminare spazi abitati da angeli di desolazione. “Il bello cola da uno strappo, / da una spina, fermenta in una carezza / o in una parola di conforto”. Pietro Romano interroga il distacco di una foglia dal suo ramo, indaga lo spavento acquattato in una vita giunta al termine dei giorni, destruttura le meccaniche del lutto, verifica la grammatica dello svanire. “L’aria è un barcollare umido labbra luce / che osano adagio baci alla luna chiusa / nel cielo”. Il poeta rammenta i languori esistenziali di Sandro Penna e vicende assetate di pietà (DJ Fabo), si rivolge agli umiliati, agli offesi, agli assediati dal male. “Penso ai morti di ogni giorno, / ai randagi, alle prostitute, / ai lampioni soli per strada; / li so nel sangue, come fitto d’ombra / dietro la schiena, come voce secca / e respiro mozzato”. Il poeta dimora tra i corpi, sosta all’ombra del prossimo (tuo, suo, nostro), detta a se stesso un codice di comportamento, si prescrive una variazione etica ed estetica. “Tieni nello sguardo ogni cosa, / non lasciarla fuori dalla porta / di casa”. È un avvicinamento alla sorgente di ogni stupore, un riconoscimento dell’umiltà sapiente degli oggetti, un’intensificazione della sensibilità, istante dopo istante. “Accostati al mondo con passo di formica, / misura la distanza fra te e il vento, / abbraccia ogni cosa da dentro”. La poesia, infine, sottrae al ghiaccio il suo dominio su uomini e cose, e ci restituisce una terra disposta a germinare: “Un’unica nascita si compie / nel seme piantato / in un dormire intrecciato, / la chiamano tenerezza”.
Fra mani rifiutate è un percorso di formazione che pianta chiodi nel ventre duro dell’esistenza, è la testimonianza di un poeta denudato fino all’osso. Leggere Pietro Romano è una ferita necessaria.
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