ElzeMìro – Mille+infinito – Le chiavi di casa

Voi che vivete sicuri                                                                   Nelle vostre tiepide case,                                                                 Voi che trovate tornando a sera                                                             Il cibo caldo e visi amici:...                                                    Considerate se questa è una donna,                                                         Senza capelli e senza nome                                                                   Senza più forza di ricordare                                                              Vuoti gli occhi e freddo il grembo                                                                Come una rana d'Inverno.                                                                    Meditate che questo è...                                                                                     
Primo Levi - Se questo è un uomo                                                                                                                                      

Impegnati in altro modo dagli shōgun, dai gengis, dai khan o khai-shek, dai furibondi in gambali o bombetta del secolo scorso, dai turbativi in turbante o con cravatte dal nodo obeso di questo – secolo poi si fa per dire tanto sembra già trapassato il suo destino – se osservi però con occhio che esige, se non ti lasci fuorviare cioè dai bei sentimenti gratuiti ovvero che costano nulla – non blood né toil, nor tears nor sweat – ovvero null’altro di più che una quota mensile dei tuoi guadagni o del tuo impegno a favore di qualche impresa benevolente, se della pittura rinascimentale adotti dunque metro, misura e prospettiva lungimirante, vedrai che bellicismo e pacifismo sono signori della stessa guerra. La differenza tra questi due Ismi e l’amore corrisposto per il massacro di quelli che la guerra la fanno o vi aspirano e se ne appagano, la differenza è nel tragitto del culo alla poltrona ; o al letto. L’Ista, anche il gambalista gamba lesta è un animale domestico, lo sai credo, viene e va da residenze di variabili metrature, lucida tinelli, anima tra sodali le spaghettate, ama l’aperòl e i bar con biliardo, ronza nei dibattiti televisivi dove si dibatte lui da sé contro finestre invisibili; è ingrediente da ristorante ed è infine voce dal sen fuggita di un qualche parlatorio compiaciuto, quale che sia, vuoi oratorio vuoi centro culturale. Quei due Ismi sono chiavi che aprono e lasciano intraperta la porta del conflitto permanente illimitato. Vedrai vedrai.

Città fonderia. A saltare per prime sono le città. Il bersaglio Coventry e oltre. Interi palazzi, interi quartieri, prende fuoco ogni gas nell’aria o nelle tubature, in ogni polmone brucia l’ossigeno, calore e bombe incendiarie in una bolla che fonde asfalto e plastica , fa esplodere i vetri e piega il ferro delle travature ; milleseicento gradi la città fonderia gorgoglia, pronta a bollire l’acqua nel fiume. Poi su tutto il fresco rumore delle manichette dei pompieri e negli incendi lo sfrigolìo del fosforo. Urli di una specie diversa : ammutoliti.
La città è stata ed è di continuo spazzolata dalle esplosioni, dai loro uragani di fuoco artificiale e, a cose fatte, in un disordine da insetti di un mondo anteriore sciamano in strada a pulire con la ramazza i pensionati, in berretto e visiera. La che conosci però, la guerra semanticamente è fotografica. I caterpillar ridisegnano il caos delle macerie poi, forse, verranno rimosse di notte per riscattare i mattoni, tutto un commercio. Superstiti muri si levano al cielo e sembrano monconi di denti. Fino alla prossima sessione di chirurgia. Well done.

Done. Donne. Per la verità non si arriva a capire l’affetto o, per meglio dire l’attaccamento che le molte, forse le più provano per un solo uomo o per gli uomini, la dipendenza dal genere dei manolesta e quindi la sostanziale connivenza con un sistema e un metodo che tende o sembra avere lo scopo di spazzarle via, a ramazzate, prima che diventino polvere ma come non fossero altro che polvere, un accidente del vento. Semanticamente la guerra è guerra alle donne. Si scopre però che anche le donne alimentano in sé la furia contro il nemico a iniziale sonora, o’ nnnemico, el enemigo di là oltre le cortine di filo spinato, di campi (se)minati, degli impianti controcarro di trìboli, makibishi, a quattro punte, oltre i denti di drago di calcestruzzo ; anche le donne, alcune almeno, non mancano di un certo qual gusto, c’è chi dice di un terribile amore per la guerra ; tra gli amori il più terribile, nonostante dalla guerra c’è da supporre che si aspettino e sappiano bene, esse, anche senza averlo saputo anche senza saperlo, che cosa aspettarsi : di essere avvilite, messe a nudo, rasate, vendute, isterilite, immolate… isterectomizzate. Un uomo spogliato dei suoi ninnoli di appartenenza o, come si usa dire, di identità, tranne casi specifici, pretende di restare tale e lo resta, quanto più sulla panza ha il cosiddetto pelo, tanto più ; nella disfatta l’esercito già sconfitto continua a uccidere, non diserta, dacché ha disertato dalla ragione ; si videro nella prima guerra mondiale le cariche di forsennati contro le trincee a poche ore dall’armistizio. Uomo è colui che pretende di formalizzare lo sfacelo. In questo c’è una metodica che appartiene al Polonio, alla Gertrude e al Re, giù giù fino all’ultimo paggio, e su ai Rosenkrantz e Guildenstern piuttosto che ad Amleto. Ofelia, chiediti di lei, interrogati invece di risponderti. Della guerra il costo non si computa in migliaia di metri di trinciato fine di rame, in tonnellate di cemento vaporizzato, in laghi di acqua perduta, venduta di poi a caro prezzo sfruttamento di uomi su uomi, in kerosene disperso a cisterne nei bombardieri, ma in donne. E in anni, perché la guerra è un’ustione infinita di fosforo che arde, che se sott’acqua si quieta, riemerge e arde di nuovo e si immerge e riemerge e arde e arde e arde. La fiamma eterna di un caìno, se te lo domandi da scommettere che non hai risposta. Abèle semanticamente è donna. Su tutto, sullo sfacelo vagano quei vecchi con l’arroganza dei vecchi ad esistere a dispetto di ogni evidenza. E tuttavia sopravvivere, persino a qualunque libro incarnato, è l’esercizio che riesce più bene alle donne.

Acqua. Per via dell’acqua c’è da alzarsi prima del presto la mattina. Fa freddo e non funzionano le caldaie a gas o perché manca il gas nei tubi e chissà quando potrebbe tornare o perché nei tubi non arriva acqua e chissà quando potrebbe tornare. L’acqua arriva per le strade in autobotte o, talvolta, sono gli operai dell’acquedotto che aprono certi pozzetti, attaccano alla mandata delle manichette o una specie di cannella provvisoria e da lì fanno sgorgare l’acqua. Le donne, si attestano in fila per l’acqua. Litigano per un metro di più o un metro di meno, si accapigliano per uno sguardo storto. Tu porti quello che hai o che sei riuscita a procurarti, una tanica di plastica, due è meglio se riesci. I fiaschi, le dame di vetro lo sai non è ccosa. I vetri come ogni fragilità sono tra le vittime i primi. Dalle autobotti l’acqua è contata, se finisce prima della coda succede sempre qualcosa, uno scattare di unghie e di piedi, di canini, un assalto, una lotta. Ma l’autobotte è lesta piuttosto a scappare. Ai pozzetti di strada invece, l’acqua arriva di preciso come in casa, a volontà, solo che. Solo che tu non hai taniche, a volontà, ed è vietato arrivare alla distribuzione con l’auto di taniche piena, se ti è rimasta e ti è rimasta della benzina : per ogni persona si hanno taniche quante se ne possono portare a mano. Tu ti devi svegliare appunto sul presto, di notte praticamente, e scendere a fare la coda, così chissà che per le sei, le sette porti un po’ d’acqua in casa e puoi preparare qualcosa di colazione. Con quello che si può è evidente. Può darsi che vi sia del caffè oggi, oppure no, forse del tè o dell’orzo ; sono più i forse che il pane. E lavarsi ci si accontenta. E gli sciacquoni, domandati come. I germi, i batteri, gli escrementi che hai passato la vita civile a scacciare, tornano a roma in trionfo.

I bambini. Si svegliano e domandano, altro da fare non hanno, C’è pane c’è luce c’è acqua. Il più delle volte devi rispondere che no ma che i nostri bravi operai, li chiami però tecnici, del comune fanno di tutto per farla tornare, rispondi. Cosa che in affetti avviene se non ci sono altri bombardamenti di mezzo, l’acqua torna e torna la luce. Tutte donne. Per un po’ il frigorifero riprende a ronzare ; per fortuna fuori fa freddo, anzi le cose, gli avanzi che mangi come cibo corrente, sui davanzali congelano come i polli a Ruggero Bacone ; la caldaia ripiglia a ronchiolare. Per poco, per meno ché poi, poi le sirene d’allarme, che di sirene non hanno né vocazione né suono.

Lavoro. Alle otto tutti, ma prima più spesso, tutti quelli che hanno un lavoro, soprattutto le donne si accalcano per prendere un mezzo che li trasporti al lavoro. E i bambini alle scuole. Molte sono state colpite e distrutte, alcune con le maestre e i bambini all’interno. I morti cambiano nome, martiri si tende a chiamarli, anzi li chiameranno a lungo così, poi per anni, benché nessuno tra loro sia nato con la fantasia di frecce alla san sebastiano o di cinturoni esplosivi. Ma è della folla il gusto per l’altisonante che tutti credono ardente in un roveto, miopi al fatto che è soltanto un accrocco di sterpi. Allora molti dicono, Che dio stramaledica, come se un dio ci fosse davvero ad ascoltare o, per lo meno, come se l’ascoltatore supposto prendesse nota di buoni e cattivi, secondo uno standard di parte e pendesse dalla nostra invece che per cattiveria divina, dalla loro. Allora anche stramaledicesse, quel dio otterrebbe che cosa di più che un bel niente : beh l’hai capito, un niente senza bellezza. Del resto un niente sono le trattative. Qualche maestra fa scuola dove capita, si è organizzata in qualche altro edificio non devastato, oppure c’è chi fa scuola in su’ casa, cosa che i bambini diverte moltissimo. La città in via di distruzione è tutto sommato un enorme paesaggio di castelli di sabbia, di rocche di madreperla ma, tutto destrutturato direbbe uno chef. E poi è così allettante poter andare e vedere dove nasconde la maestra i suoi libri, tanti magari, i ninnoli suoi di qualche viaggio, i ricordini e le mutande, in quale cassetto ; da quali piacerini trae diletto, le personali memorie in attesa del salto di là nel polveràio e nel nulla della ventura incursione.

Doveri. All’anagrafe intanto si continua in lettere chiare a fare il protocollo dei morti. Di solito sono le donne a lavarli e gli uomini a levarli, i loro compari dalle trincee ma questo avviene lontano da qui, al fronte dove a nessuno è data la chiave di casa. Questo sarebbe stato un segnale che avrebbe dovuto allarmare quelli che si sono provveduti di divisa e di armi : che è come tornare a casa senza le chiavi il dilemma. Ora i morti, per lavarli, non c’è più tutto il tempo negli obitori e si fa con la sistola. L’acqua, salvo errori, arriva alla morgue dove sono le donne, e qualche vecchio patologo, tutti col grembiale di gomma e gli stivali, che lavano il sangue, e assegnano un nome, consegnano i resti, nel senso di avanzi scomposti o decomposti a chi ne reclama. La procedura è cesarea, mica stare a guardare : un morto è morto, un nome ma non sempre, un odore da depennare dal censimento ma non qui, negli uffici predetti. Si deve salvare la cultura delle tavolette, le assire, sumere e babilonesi, la religione statistica. A seguire il pianto e il compianto ma non è detto in quest’ordine. Della carne tritata sotto le travi, dei senza busto né braccia né testa ci sarà poco da vestire. Hush hush brief candle alla svelta. La fortuna è che su tutto si levano i fumi dai fumaioli dei forni a cremare.

Tram. Ci sono dei tram a percorrere le strade spazzate dai vecchi. I tram che sopravvivono a missili e bombe viaggiano sovraccarichi e simili a muli. Alla guida, alle manette dell’elettricità ci sono le donne e filano i tram, si fermano a caricare chi possono, a chi passa basta un cenno, un fischio, un’occhiata alla conduttrice e il tram frena, rallenta, carica e via. I viaggiatori viaggiano spesso appesi fuori dalle porte, saltano giù dove gli capita la necessità, così che altri si appendono. Non si capisce come possa scendere chi sta ripigiato dentro alla carrozza. Forse esiste una fermata definitiva.

Animali. Ci sono gatti che hanno perso la casa. Ci sono cani che hanno perso i padroni e che vanno per sostituti. Non si sottomette a chiunque il cane, ma a un’anima che abbia pietà. A volte, immagina un poco, gemono fermi sopra un monte di legno e cemento di ferro e mattoni. I cani stano lì ad aspettare divise, pompieri o soccorritori. Talvolta là sotto si trova una persona che respirare respira, tossisce, o meglio vorrebbe tossire e sputare le ostie di particolato che soffoca. Sia lode e grazie all’ossigeno in maschera se c’è, e se c’è all’ambulanza, alla forza di braccia in mancanza, e intanto la persona saluti il distratto dio degli eserciti. Lo stesso con diritto supremo di vita e di morte. Alla salute. Tra i resti non mancano piattole e ragni, millepiedi, pesciolini d’argento, gli insetti chissà se distinguono tra un muro per dritto e un altro che nemmeno è più muro. Ci sono i topi, ah i ratti, ah i voraci che affiorano di preferenza la notte, per grufolare tra le rovine, a inghiottire qualche occhio, ad affondare i denti in una carne in rovina. I gatti non perdono tra le macerie la loro somiglianza coi velluti sciorinati ai tempi dei tempi dai mercanti sui banchi di legno, di silenzio vanno a caccia i gatti, di nessuno hanno bisogno ; osservano il caos e il macello; si indignano per qualche odore molesto ; chi i gatti conosce ne decifra dai gesti i sentimenti e dallo sguardo ; non è fisso come sembra agli stolti ; un fremito di palpebre basta al gatto per circoscrivere il suo disappunto. Insegue il gatto chi al collo sembra avere una chiave per una porta da aprire e se ha una faccia sicura, di anima senza confine ; tra le nuove mura con il ricordo di quelle perdute sgattàiola. Senza preavviso da dietro un cantone appare un cavallo poi due, poi tre e corrono di buon galoppo scartando i gesti imprudenti delle persone che si parano a loro dinanzi, che cercano di afferrarli per la cavezza, fosse facile ; si impenna uno dei cavalli e piomba sul torace all’incauto. Poi via via i cavalli vanno via lungo una strada che si perde sulla sua dirittura. Difficile dire se ora di sera i cavalli saranno carne in scatola. C’è penuria di alimenti in una città bombardata. E il carnaio di cui tuttavia sono il rifornimento non attenua le carnivore voluttà degli umani.

Le chiavi di casa. Molti al collo le portano appese con uno spago o una catenella, anche d’argento o d’oro quei pochi, quelle poche, chi ne possiede una. Una catenella d’oro, anche di un peso da niente, è valuta pregiata quando manchi o perda il valore il denaro. Con un anello si sguscia da un posto di blocco, si può superare uno stupro, riesci dove altri perisce. La preoccupazione è le chiavi di casa, che te le sottraggano in qualche maniera e un fabbro immaginarsi dove trovarlo. Le chiavi di casa al collo si tengono strette sotto i vestiti : ché ci sono occhiuti sciacalli, spioni a proprio utile e beneficio, campioni in darwinismo sociale, tutta gente che adesso, un po’ come in tempo di pace indifferente alle norme, adesso con a portata la mitragliatrice ruggisce a bordo di grandi pick-up su è giù pei viali ritorti. Guai alle donne. Perdute le chiavi, è il pensiero che assilla, dove andare altrimenti. È il quesito che si pone alla chiocciola.

La polvere simula bene il sepolcro. E chi non sia morto stringe le chiavi di casa almeno con il proprio pensiero, emerge dalla rovina e si dà conto che dove c’era non c’è più né portone, né porta, né gradini, né corrimano, né serratura da aprire con quelle chiavi. Il proprio senso la chiocciola ha perduto. E adesso, è la domanda senza orizzonte. Adesso è adesso. Adesso è forse nei torrentelli dove i piedi che vi sprofondano sperano siano solo di fango. Fango. Poi più.

Pasquale D'Ascola

Pasquale Edgardo Giuseppe D'Ascola, già insegnante al Conservatorio di Milàno della materia teatrale che in sé pare segnali l’impermanente, alla sorda anagrafe lombarda ei fu, piccino, come di stringhe e cravatta in carcere, privato dell’apostrofo (e non di rado lo chiamano accento); col tempo di questa privazione egli ha fatto radice e desinenza della propria forzata quanto desiderata eteronimìa; avere troppe origini per adattarsi a una sola è un dato, un vezzo non si escluda un male, si assomiglia a chi alla fine, più che a Racine a un Déraciné, sradicato; l’aggettivo è dolente ma non abbastanza da impedire il ritrovarsi del soggetto a suo Bell’agio proprio ‘tra monti sorgenti dall’acque ed elevate al cielo cime ineguali’, là dove non nacque Venere ma Ei fu Manzoni. Macari a motivo di ciò o, alla Cioran, con la tentazione di esistere, egli scrive; per dirla alla lombarda l’è chel lì.

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