A tu per tu con…Sandro Bonvissuto

Sandro Bonvissuto ci ha regalato una lunga chiacchierata sulle emozioni e le tecniche della scrittura, raccontate con consapevolezza e misura. Paola Milli su Oggi ha affermato che sembra uscito da un film di Pasolini e non si può darle torto: nelle sue parole quotidianità e passione si mescolano dando vita ad un’immediata empatia. Classe 1970, nella vita fa da anni il cameriere in un’importante trattoria romana e ha esordito nel 2012 nientemeno che per Einaudi con la raccolta Dentro: tre racconti che hanno ricevuto un ampio consenso di pubblico e di critica, aggiudicandosi il Premio Chiara 2013. Un esordio sorprendente: il lettore è colpito dalla materia plastica del narrare che traduce un dialogo profondo tra il sé e la realtà che lo circonda.

Nel suo sito dichiara che “Dentro” non è un libro autobiografico. Non parla della sua vita, ma della vita. Eppure si è scelta una narrazione in forma intimistica che appare davvero un racconto di sé. Ci spiega questa scelta?

Io ho rapporti personali con tutte le cose narrate nel libro, ma quel libro non è la mia storia. E’ narrato come un’invenzione, come un romanzo. E’ ovvio che l’intercessione personale dell’autore è quella per la quale deve sapere ciò di cui si parla. Come lo ha saputo sono cose sue e non è necessario o importante ai fini narrativi. Si voleva evitare che il movimento retorico del narrare costituisse di fatto una distanza dal narrato. La scommessa è che fosse più vicina possibile al lettore e la narrazione in prima persona è l’espediente più congeniale. Della persona coinvolta non sappiamo nulla e ciò tradisce il fatto che semplicemente lui non esiste. Pirandellianamente doveva essere chiunque e finisce per non essere nessuno.

Il suo stile narrativo è caratterizzato da scene che sono quasi dei piccoli montaggi al rallentatore dai quali però si è portati a seguire i moti dell’animo. Quali sono i suoi riferimenti letterari?

Quello che mi sostiene è non tanto la lettura della narrativa quanto della filosofia, dato che sono laureato in estetica. Durante i miei studi sono stato attratto dall’esistenzialismo e dai grandi narratori francesi del Novecento come Sartre e Camus. Da quella generazione di scrittori ho tratto una necessità: la scrittura deve essere funzionale alla trasmissione del pensiero, deve essere icastica fino a ricorrere a quello che viene definito il “sintagma perfetto”, cioè l’espressione del massimo significato con il minimo delle parole. In questo modo quello che viene consegnato al lettore sembra una frase in realtà è un’immagine, una fotografia. All’inizio tutto questo può cogliere di sorpresa e sotto certi aspetti ho dovuto condurre una personale battaglia, ma quando sono uscite le esigenze autoriali il libro ne ha beneficiato. Questo è il grande vantaggio di lavorare con un grande editore: hai la possibilità di confrontarti con grandissime maestranze …

A questo proposito come è arrivato alla pubblicazione con Einaudi?

Avevo fatto un concorso che era stato indetto in occasione  della fiera “Più libri, più liberi” a Roma e mi ero aggiudicato la pubblicazione della raccolta per un piccolo editore. All’interno di questa c’era anche un racconto che poi è stato inserito in Dentro.  Il libretto è stato notato da Daria Oggero, editor Einaudi, e ritirato dal mercato.  Questo libro che non esiste mi ha portato fortuna e mi piace pensare che tutte le cose che ho fatto hanno contribuito al fatto che il libro fosse conosciuto. C’è ancora la possibilità che un grande editore ti noti, non è vero che non sono attenti: io ne sono la dimostrazione vivente. Certo, come sempre, c’è anche una certa dose di fortuna.

Cosa pensa dell’editoria a pagamento? Ritiene sia un buon strumento per farsi conoscere?

Non la vedo come il male metafisico: molte persone l’hanno utilizzata per far conoscere testi che nessuno altrimenti avrebbe letto o pubblicare ricordi, storie importanti a titolo personale. Si tratta di una scelta che alcuni decidono di percorrere resa possibile dalle trasformazioni del mercato editoriale. D’altro canto lo scrittore vuole la divulgazione dei suoi libri, io non credo affatto che si possa scrivere per sé. Però passatemi la metafora: l’editoria a pagamento è un po’come il sesso a pagamento, così come l’autopubblicazione possiamo associarla all’autoerotismo…

Con questo libro si è aggiudicato il Premio Chiara 2013, confrontandosi con due grandi autori del panorama narrativo italiano come Mauro Corona e Marco Vichi. Che effetto le ha fatto?

Vincere da outsider è stata una grande emozione: faccio il cameriere, non sono un professionista se vogliamo e mai avrei immaginato di vincere un premio di tale prestigio, consegnato da un’Associazione (gli Amici di Piero Chiara ndr) che custodisce la scrittura dell’autore di Luino in un modo in cui tutti vorremmo fossero conservate le nostre cose. L’anno scorso è stato celebrato il centenario della sua nascita e la sua opera sta tornando di grande attualità e interesse, anche se non ha mai smesso di vendere. E’ stato un vero maestro della narrazione breve, inserendosi in una grande tradizione italiana (da Boccaccio a Verga e Pirandello), che forse troppo spesso accantoniamo. Io sono sempre stato affascinato dalla modalità con cui raccontava questa provincia per me così lontana, fatta di doganieri e contrabbando sullo sfondo malinconico dei laghi. Era un uomo mite e garbato che ha raccontato ciò che ha visto o ha creduto ci fosse nella realtà che lo circondava. Il nascondersi come narratore è stata per me la cifra della sua espressione artistica.

La sua attività lavorativa in che rapporto si pone con la sua scrittura?

La trattoria è un serbatoio sconfinato di storie: è un lavoro a contatto con la gente di cui conosco le vicende e le passioni. Ogni giorno vedo il locale riempirsi di centinaia di persone e poi svuotarsi come un polmone: praticamente le storie ti vengono in casa attraverso un luogo spensierato, scanzonato e pieno di vita.

Per quanto riguarda poi il rapporto con queste attività secondo me il lavoro, anche se impegnativo e faticoso,  è salute e ti dà tanto; lo scrivere dal canto suo ti educa a vedere le cose nascoste tra le pieghe della vita, ti porta a forzare la serratura della gabbia in cui ci troviamo. Per fare un esempio semplice e concreto, se si rompe un piatto al ristorante si può stare ad osservarlo per qualche minuto pensando alle sue caratteristiche, ai gesti e alle reazioni.

Fare della scrittura un lavoro è un passaggio per cui ci vuole una certa grandezza; per ora voglio essere libero da questioni economiche quando scrivo: preferisco farlo passandoci delle nottate in bianco, penso sia più romantico così.

Milanese di nascita, ha vissuto nel Varesotto per poi trasferirsi a Domodossola. Insegnante di lettura e scrittura non smette mai di studiare i classici, ma ama farsi sorprendere da libri e autori sempre nuovi.

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