Fu durante i cinque mesi di rapimento in Siria che Domenico Quirico, giornalista de La Stampa, sentì parlare per la prima volta del Califfato. Dopo aver dato l’allarme, appena rientrato in Italia, il giornalista ha scritto il suo ultimo libro,
Il grande califfato, per tornare a parlarne attraverso un lungo viaggio che lo porterà da Istanbul alla Nigeria. Al Salone Internazionale del Libro di Torino gli abbiamo fatto qualche domanda in più.
La storia del tentativo di creare uno stato islamico è molto antica. Per restare ancora ai tempi moderni, c’è stata l’Algeria negli anni 90 nel tentativo di impadronirsi di uno stato islamizzato. poi c’è stato l’Afganistan, la Cecenia… Hanno fatto vari esprimenti prima di trovare il luogo e il momento storico giusto per realizzare il loro progetto: il vicino oriente nel dopo rivoluzioni e primavere arabe, in un luogo dove il regime era particolarmente sconnesso e già indebolito da una rivolta. E’ quindi un progetto molto lungo.
Come sono davvero le persone che operano in questa organizzazione? Sono uomini comuni o qualcos’altro?
C’è di tutto, dagli intellettuali alle persone di bassa condizione sociale. Il Califfato è un progetto che raggruppa provenienze diverse: il giovane della buona borghesia britannica, il contadino che ha preso il fucile per impadronirsi della fattoria dove lavorava; è tipico dei grandi eventi storici. La cosa comune a tutti è che sono tutti credenti. Il progetto del Grande Califfato non è solo politico che utilizza la religione come specchietto per le allodole. E’ gente che crede veramente di realizzare l’opera di Dio sulla terra.
Una delle cose che sconvolge è la freddezza di questi uomini che appaiono in video. E’ per loro motivo di orgoglio?
Per loro è il compimento di un disegno trascendente. Nel momento in cui uccido l’infedele non compio un delitto ma si fanno mano di Dio. Questo elimina il tessuto stesso dell’esperienza religiosa, cioè il rimorso per le proprie azioni. E’ gente senza rimorso perché la considerano opera religiosa. Mostrare l’eliminazione dell’impuro inoltre non è una comunicazione rivolta a noi (che la leggiamo secondo canoni di interpretazione nostri): per loro è il guerriero che diventa imbattibile e potente e che compie il disegno della creazione del grande stato islamico. E’ un codice di lettura diverso dal nostro. E questi sono i destinatari della loro spettacolarizzazione, non noi.
Il rapporto con il tempo è differente tra occidentali ed islamici?
E’ un rapporto totalmente differente. La collocazione della modernità soprattutto: l’oggi per loro è il momento della sconfitta, della povertà, del degrado; la storia deve essere riavvolta al contrario: l’epoca d’oro della loro storia è il Medioevo, epoca del primo Califfato, quando l’Islam era la civiltà del mondo. Noi la leggiamo al contrario, dal Medioevo ad oggi attraverso Rinascimento, Rivoluzione Industriale, ecc… Per i musulmani è esattamente il contrario.
Come si combatte questo fanatismo secondo lei?
L’idea di oggi (2011-2012-2013) dell’Islam radicale è nata dalla constatazione del fatto che l’Occidente è debole. Era quindi un momento giusto per tentare. Noi, cioè gli Stati Uniti d’America, non abbiamo la possibilità di contrastare efficacemente il califfato. L’unica chance è legata al fatto che di solito i sistemi totalitari si autodistruggono, perché si pongono obiettivi troppo elevati, vedi il nazismo. Anche la costruzione del Califfato mondiale non ha le energie sufficienti per sopravvivere. Il concetto di guerra totale significa guerra totalitaria negli scopi, permanente. I totalitarismi devono fare sempre guerra perché è l’unica giustificazione. E in questo modo si autodistruggono.
Come vede questa situazione tra 10 anni?
Esattamente come oggi. Il Califfato sarà più grande di oggi. Io credo questa storia durerà per almeno 20/30 anni, come la Guerra dei Trent’anni in Europa.