Ti volevo dire, il primo romanzo di Daniele Bresciani edito da Rizzoli, racconta una storia di rapporti familiari, di amicizia e di amore in cui il dialogo è l’unico vero antidoto al dolore e alla malinconia. Parla con delicatezza e con semplicità di personaggi che ti entrano nel cuore. Tutto è costruito intorno al tema dell’avere voce, del riuscire a trovare le parole per esprimere quello che ciascuno ha dentro di sé e che ha celato troppo a lungo. Viola, dopo la morte improvvisa di suo padre Giacomo, smette di parlare. Può la lettura dei diari e delle lettere che gli appartenevano svelare la soluzione al giallo sentimentale che le ha fatto smarrire le parole? Ti volevo dire promette che un mistero sarà risolto, che c’è un passato di cose non dette che non può più restare segreto. Nel romanzo si stabilisce un rapporto di complicità tra scrittore e lettore che fa subito venire voglia di sentirsi raccontare una storia e scoprire cosa intendesse dire, forse proprio a te, chi l’ha scritta.
La sensazione che si ha leggendo il suo libro è quella di trovarsi di fronte ad una storia vera, come se avesse raccolto in una sorta di diario quello che poi avrebbe forse trasformato in un libro. Ha lavorato a lungo a questo romanzo? Quanto lavoro è necessario per raggiungere un livello di scrittura che risulti efficace ed immediato e quanta esperienza di vita vissuta c’è in quel che scrive?
In effetti, c’è molto di “vero”, se per vero intendiamo esperienza personale. Ho parecchia esperienza sui “silenzi”, da quelli fisici a quelli psicologici. I primi sono quelli di mio figlio Luca, che oggi ha 8 anni: ha un disturbo di linguaggio che pur non essendo grave come il mutismo selettivo mi ha tenuto molto in ansia e sul quale ancora oggi, con la logopedia, sta lavorando. Gli altri silenzi, però, sono ancora più pericolosi, sono quelli che ci spingono a “non dire”: per paura, per uno sbagliato senso del pudore, per vigliaccheria. Un bel “vaffanculo” a volte è salutare mentre se si lascia covare quella rabbia dentro di sé alla fine i danni sono maggiori. Io l’ho capito tardi e forse quando l’ho capito ho iniziato a scrivere questo libro. Ci ho messo un paio d’anni a finire il manoscritto di Ti volevo dire. Prima avevo provato a scrivere altre cose, ma mi sembravano sempre false, artefatte. Qui, almeno, c’è un po’ di me anche se si tratta pur sempre di un romanzo.
“Ti volevo dire” è il suo primo romanzo, come si decide di diventare scrittori? Scrivere è un’urgenza o un atto di vanità?
Che bella domanda… Non credo sia un’urgenza, perché chiunque ne può farne a meno e, chi dice che non può fare a meno di scrivere o che la firma è l’unica cosa importante che ha, secondo me mente. O comunque, ammesso che per qualcuno scrivere sia davvero una necessità, non lo è pubblicare quello che si scrive. Vanità? Di quella ce n’è di sicuro un po’ in chiunque scriva un libro. Ma forse più di tutto c’è il piacere di raccontare una storia e vedere che quella storia piace un po’ a chi la legge. È un’emozione un po’ infantile, se si vuole, come quella del bambino che fa vedere il disegno alla mamma e ne riceve una carezza e un sorriso, ma è una sensazione che continua a essere appagante anche da adulti.
Ha scritto un libro sull’importanza del dialogo nel rapporto tra genitori e figli e tra le persone in genere. Viola soffre di mutismo selettivo e scrive per comunicare con gli altri, suo padre scrive lettere. La scrittura è la forma più importante e più vera di comunicazione? Cosa rappresenta la scrittura per lei?
Ho una passione per le lettere in genere. Credo che per lo studio di un autore, l’epistolario sia molto più utile di qualsiasi testo critico. Così come quando si scrive alla persona amata, a un amico o a un genitore, solitamente si è più autentici. Insomma, una lettera, che sia del Leopardi o di un soldato italiano al fronte, ci dà un’emozione speciale. Oggi, ai tempi delle mail, si è perso il piacere dell’attesa, tutto è così immediato, ma una volta ricevere una lettera voleva dire soddisfare più sensi: era bello sentire il fruscio della carta, tastarne la morbidezza e accarezzarne le pieghe, annusarla. Se l’inchiostro in un punto era sbavato noi pensavamo a una lacrima caduta in quel punto o se c’era una macchia di caffè questo immediatamente ci dava un’immagine di chi ci aveva scritto, con la tazzina vicino, magari in un punto particolare di una casa che ci era nota. Tutto questo, ai tempi di Internet, si è perso. E un po’ mi dispiace.
Scrive di incomunicabilità ma paradossalmente nel suo libro si parla molto solo che non ci si dice di fatto mai abbastanza di sé e ci si fraintende anche molto. La verità su di sé si rivela solo quando si scrive. Nei dialoghi c’è un’attenzione quasi maniacale nel voler spiegare il significato di qualcosa che accade, di una cosa, di una parola, quasi “da manuale”, quasi da dizionario. Di cosa si tratta? I suoi personaggi hanno più ansia di dire e riempire dei vuoti più che comunicare?
La necessità della chiarezza deriva dal mestiere che faccio, quello di giornalista: credo che i giornali debbano necessariamente essere chiari e aiutare chi legge a capire senza fare sforzi e senza sentirsi mai stupido. Io non sono uno scrittore, sono semplicemente un giornalista che, a 50 anni, ha scritto un romanzo e le regole di una vita le ho applicate anche lì. I vuoti di parole non mi spaventano, anzi, credo che in certi momenti il silenzio sia utile e benedetto. Ma mi fa paura l’incapacità di parlare, di dire quello che si pensa, quello che si prova. Io non voglio che i miei figli mi parlino a tutti i costi, ma vorrei che si sentissero liberi e tranquilli nel dirmi qualsiasi cosa, che non fossero preoccupati di rivolgermi domande o chiedermi aiuto. È la differenza che c’è tra un dialogo e un interrogatorio.
Qual è il personaggio a cui è più affezionato e del quale le è piaciuto di più scrivere?
Mi sono affezionato ai comprimari, a Fulvio e a Leslie. Il primo è amico di Giacomo e gli resta vicino sempre, senza però per questo risparmiargli critiche quando si comporta male se non malissimo. In un certo senso è l’anima pulita di Giacomo e come molte anime pulite spesso non viene ascoltato, ma non per questo viene meno al suo compito. Leslie fa lo stesso con Viola, è l’amica che l’aiuta senza interessi nascosti, in modo schietto. Sono amicizie simili, entrambe nate da convivenze forzate, nell’appartamento di Londra per Giacomo e Fulvio, nella stanza del collegio per Viola e Leslie. Mi piaceva che ci fosse anche questo richiamo tra le due storie.
Che cosa vorrebbe i suoi lettori ricordassero del suo libro e cosa ha imparato invece scrivendolo?
Mi piacerebbe che i lettori, chiudendo il libro, avessero un po’ di nostalgia dei personaggi che hanno lasciato. Mi piacerebbe che volessero un po’ bene anche a Giacomo con le sue fragilità di uomo. Mi piacerebbe che provassero la voglia di dire una parola in più alle persone a cui vogliono bene. E, per quanto mi riguarda, ho imparato che a 50 anni la vita può riservare ancora qualche sorpresa piacevole. Ma se poi aver scritto questo libro, mettendo nero su bianco le mie paure, mi abbia aiutato a superarle, è ancora troppo presto per dirlo.
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