
Data di pubbl.: 2024
Traduttore: Adele Bardazzi
Pagine: 237
Prezzo: € 18,00
Poesia scritta e pensata come un necrologio, una lingua che scortica le parole, il dolore della perdita con cui fare i conti e la mancanza da riempire con la scrittura, per continuare a vivere nel mondo in cui siamo nati per dirci addio.
Victoria Chang, titolare della cattedra Borne di poesia presso Georgia Tech, dopo la morte della madre inizia a scrivere un libro per arginare gli effetti devastanti del dolore.
Così nasce Obit. Poesie per la fine, un coinvolgente progetto di prosa poetica in cui l’autrice si tuffa nel proprio dolore per la perdita della madre e prende in prestito la forma del necrologio (come quelli che si pubblicano sui giornali) per affondare la penna nello schianto di una lingua che sa guardare il dolore negli occhi.
Quando muore qualcuno che amiamo, muore tutto. Parte da questa considerazione il racconto di Victoria Chang. che nella sua poesia – necrologio racconta senza fare sconti tutto quello che muore in lei dopo la scomparsa della madre.
«I necrologi di Chang – scrive nell’introduzione Adele Bardazzi – sono tutti in poesia modellati sui necrologi di carta stampata, stretti e scarni, ma invocano anche la solidità rettangolare delle lapidi».
Con parole affilate che sanguinano in ogni necrologio la poetessa affonda la pena nella carne viva del dolore per la perdita della madre e di frammento in frammento redige lo stato dell’arte della mancanza, evocando la morte di tutte le cose presenti intorno al corpo morto della madre.
«Il linguaggio poetico – scrive ancora Adele Bardazzi – può ricreare uno spazio che è stato azzerato nel tempo imposto dalla malattia. La parola poetica del lutto ricrea uno spazio non solo di riflessione, ma anche di ricucitura di ciò che è stato disfatto».
Victoria Chang è sempre tagliente quando scrive le sue parole poetiche del lutto per esprimere la perdita di chi si ama.
La sua lingua non risparmia nessuno: ogni necrologio è un colpo di grazia. Davanti alla fine senz’appello di ogni passaggio terrestre le parole inchiodano la memoria al suo sanguinamento.
«L’immaginazione è dover vivere nel futuro di una persona morta. Il dolore è indossare per sempre il vestito di una persona morta»; «La rabbia dopo la morte di qualcuno è una torta sul tavolo, completamente lievitata. Un coltello custodito in un bicchiere»; «Sventolo i miei ricordi, li batto con un cucchiaio di legno, solo per un momento, per sentire di nuovo l’orpello della morte, il suo becco sporco di sangue».
Come ne La lugubre gondola di Tomas Tranströmer, poeta molto amato da Victoria Chang, in Obit la forma espressiva della parola è portata all’estremo, a una nitida, radicale e essenziale geometria.
Questi necrologi non li dimenticheremo facilmente, perché con le sue parole spietate la poetessa fa muovere il dolore come un verbo. Ci fa sentire addosso il freddo del dolore che fiorisce e respira, si riconosce, si annusa e si dà voce, il dolore che entra di prepotenza nelle nostre vita senza chiedere permesso.