Autore: Ayşe Kulin
Data di pubbl.: 2015
Casa Editrice: Newton Compton edizioni
Genere: Romanzo storico
Traduttore: Luca Di Maio
Pagine: 336
Prezzo: 12,00
Ankara, Turchia 1941. L’ultimo pascià ottomano della Turchia, Fazil Reşat Paşa, ha due figlie: la bellissima Sabiha, sposata con il diplomatico Macit, e Selva, una ragazza ribelle e sensibile che, contro il parere delle famiglie, ama e sposa l’ebreo Rafo e si trasferisce con lui in Francia. L’amore tra i due giovani è considerato un motivo di vergogna e porta quindi ad una separazione dolorosa, tra sensi di colpa, dolore e solitudine.
Ma le gradi tragedie familiari diventano piccole dinnanzi ad una guerra imminente: “la Turchia si era ritrovata tra l’incudine e il martello. Da una parte c’era la Gran Bretagna, che aveva a cuore solo i propri interessi e che faceva pressioni affinché la Turchia diventasse un suo alleato; dall’altra c’era l’atteggiamento minatorio della Germania. Come se non bastasse, la Russia aveva teso alla Turchia un pugno di ferro in un guanto di velluto. Il loro interesse in Kars, in Ardahan, nel Bosforo e nei Dardanelli pendeva come la spada di Damocle.” (p. 8)
Sono ormai lontani i giorni spensierati nei quali le due sorelle trascorrevano gli inverni nella loro villa di Istanbul e le estati nella residenza al mare. Tutto cambia: la guerra diventa l’unico argomento di conversazione per le mogli dei diplomatici dedite ai bridge e alle feste, mentre i mariti sono rinchiusi in ufficio, impegnati nel gestire le difficili relazioni con gli Stati in guerra. E Selva e Rafo? Hitler invade la Francia e i due giovani sposi sono in pericolo, così come tutti gli ebrei in Europa, costretti a nascondersi per scampare ai rastrellamenti dei nazisti.
In tanta desolazione, un barlume di speranza: nel 1942 i diplomatici turchi cercano di radunare tutti gli ebrei di Parigi che avevano salvato dai campi di lavoro, per mandarli con il treno a Istanbul. Il governo turco sta organizzando un viaggio verso la libertà: avrebbe noleggiato una carrozza e l’avrebbe attaccata ad uno dei treni in partenza da Parigi verso Edirne, al confine con la Grecia e la Bulgaria. Accanto agli ebrei di nazionalità Turca, la Resistenza francese vuole nascondere anche altri ebrei, fornendo loro passaporto falso e una nuova identità turca. Il piano si mette in moto, e i passeggeri, tra cui Selva e Rafo, stanno per intraprendere il viaggio più lungo e difficile della loro vita.
L’ultimo treno per Istanbul è il primo libro di Ayşe Kulin – una delle autrici più famose e amate della Turchia – a essere stato tradotto nel nostro paese. L’autrice spiega che il suo romanzo non è una storia vera, bensì di tante verità, poiché è basato sulle esperienze di diversi diplomatici turchi che, assegnati in Europa durante la seconda guerra mondiale, che sono riusciti a salvare tanti ebrei, turchi e non.
La storia di un amore contrastato diventa il simbolo dell’unione e della solidarietà tra esseri umani: una coppia si trasforma in moltitudine e racconta la sofferenza, la paura e la violenza della guerra, ma anche il coraggio e la forza di quegli uomini che lottano per gli ideali di libertà e giustizia, perché “l’urgenza della guerra non deve farci dimenticare la nostra umanità.” (p. 187)
Un romanzo intenso e coinvolgente che fornisce un diverso punto di vista sui tragici avvenimenti della Seconda Guerra Mondiale; una lettura interessante che ci spinge a riflettere su quanto peso la politica e la religione esercitino sulla vita delle persone e su come l’intolleranza e la stupidità umana siano il motore di grandi tragedie, familiari o mondiali che siano. Una storia emozionante che aiuta a capire cosa hanno provato coloro che sono stati travolti da una guerra, ma che evidenzia anche la possibilità di dimenticare pregiudizi e differenze di religione, cultura, paese di appartenenza. Ancora una volta, a colpirci sono il coraggio e la forza che tante persone sono riuscite a dimostrare, mettendo la propria vita a servizio degli ideali in cui credevano: “A conti fatti, cos’è poi la vita? Non moriremo tutti alla fine? Credo che valga la pena vivere se, mentre siamo su questa terra, facciamo qualcosa di onorabile”. (p.242)