Avranno altri autunni
Le maree.
Lascia che si sperdano i tuoi apparati
I preludi, il reticolo dei riti
Con che a strascico rastrelli fati
Incoerenti, nei miti
Non ti imbarcare più, a quel che dici
Bada, leva le foglie al fico, gli artifici
Che cela svela, con costanza
Taci ché il tempo non ha luminanza.
Avranno altri autunni.
Le maree.
Sono di Istambul, è accertato e non ci può essere dubbio al sentirle allacciare le parole in ghirlande di ler lir din dik, al suono contrappesato del loro parlare da babeyaga ; sono turche, giovani, belle in assoluto, si suppone turiste, ma se lo sono sono turiste di un tipo particolare, visitatrici soavi in un contesto alpino dove il sudore è per futili motivi ; loro sono amorose camminanti magari sulle acque, munita di treccia l’una, di pelo ultracorto l’altra ; le loro gambe nude, quanto son lunghe e progetto di una gestazione accurata, salgono per moto contrario verso terra, arrivano agli agili sandali e più giù, giù aderenti nella terra di questa europa avrupa da tempo così simile a un peto di coniglio.
Camminano nel bosco, anzi di più in una foresta, incollata alla costa sud della lunga vallata e, come si usa dire, a perdita d’occhio ; a starci in mezzo, da dentro non se ne afferra quanto è estesa, ma nemmeno da fuori ; solo un drone vola-vola-vola quello sì, potrebbe. L’impressione che arriva dal loro passo è che prendano le misure della circostanza di trovarsi lì su quel sentiero piano, ben battuto, eppure tale da smarrire la logica di un sentiero, che sarebbe quella di portarti da un dove a un altro. Non che non sia segnalato il percorso come potrebbe con targhette e banderuole, dette appunto segnavia, in crèmisi, bianco e cremisi e un numero e una lettera : al contrario su una piccola placca di un giallo uovo brillante, solo una sigla in nero e che lampeggia quasi, inchiodata qua e là ogni tanti metri, al tronco di un albero o infissa in una pietra erratica ; dovrebbe indicare un punto d’arrivo, una location interessante, scriverebbe così un recensore di tripadvisors, sembra acronimo di qualcosa di riconoscibile su una mappa topografica, ma no : ave ; ave ave ave, le due giovani è possibile che abbiano appreso, ricordino frammenti di un latino da museo lapidario ; o magari l’ave atque vale dei latini dotti, ma non è così, è possibile ma non è probabile. Ave è ave.
Cammina cammina ecco le due fate in vista dell’incognito traguardo. Perché in una smagliatura della tessitura verde e di varie gradazioni e toni che traversano, già da una certa distanza hanno avvistato qualcosa. Si fa sempre più vicina e poco a poco si rivela. È una smagliante costruzione di cemento armato lucido e cristallo, una costruzione fatta di tre blocchi, tre parallelepipedi senza occhi, se si esclude la vasta vetrata del corpo principale che di occhio ha poco poiché è di fatto un’intera facciata, non in muratura ma di quel vetro che da dentro vedi fuori ma non viceversa. Ogni blocco ha un volume diverso ma tutti hanno il tetto piatto ; appena sbucate nella vasta radura dove qualcuno ne ha posato le pietre angolari e poi concluso quelle costruzioni, si presenta il primo dei blocchi, è il più piccolo, una scatolona, da cui arriva forse il sussurro dell’elettricità in corsa ; e da dove corra per arrivare non si sa, forse da sotto terra, e poi che sussurri è meno che un’impressione. C’è, su un lato, una grande porta verniciata, un portellone grigio chiuso da un maniglione di una qualche polimero plastico e abbellito, il portellone, da cartelli di pericolo, in più lingue, forse – non perdono tempo a leggerli le due donne, ma Hochspannung, domina in germanico la loro attenzione, perché il germanico rende il pericolo elettrico una materia solida, come Beton è più duro di cemento e acciaio, Eisen, è più acciaio di tutto, sa subito di carro armato –.
Ma la sostanza del complesso è nel secondo e nel terzo blocco che verrebbe voglia di dire sembrano due tipi diversi ed enormi di mattoni lego. Uno più lungo e più basso simile appunto ai blocchetti a sei tasselli di quel gioco, l’altro più alto, un dado, per trovargli un paragone. Non sono allineati tutti e tre i blocchi ma costruiti ognuno su una propria linea di riferimento, sfalsati e in più, a una osservazione meno superficiale si nota che c’è una sorta di intercapedine tra il terzo e il secondo blocco, un elemento di transizione in forma di cuneo, di zeppa, un triangolo scaleno in pianta. Infine questo blocco è ha una quota inferiore a quella del primo e del secondo. Tutto il complesso è stato edificato su un dislivello, è ovvio, e c’è davanti a tutto, non un parcheggio ma un’area di manovra dal fondo pure in cemento, con canaline di scolo per l’acqua, certo, un parapetto di legno verso valle e nessuna auto ferma lì davanti o che arrivi dalla strada che li termina sbucando anch’essa dalla foresta. Nel muro frontale del terzo blocco c’è un portone, forse di alluminio, ma grande e a soffietto, ciascun elemento del quale ha una finestrella oblunga, di forse un metro di lunghezza, un caditóio medievale per farsene un’idea – che vuol dire immagine –, chiusa da un vetro oscuro e messa a un’altezza per cui nemmeno un giocatore di basket potrebbe guardarci attraverso. Si suppone che il portone venga aperto e richiuso con un comando elettrico. Dal tetto piatto di questo blocco, ed è, in senso proprio, l’elemento di maggior rilievo del complesso, si eleva al cielo una ciminiera molto alta, di acciaio brillante, non cilindrica, quadra e con un cappello in cima, un grosso cono tronco che di sicuro è un filtro, un abbattitore di fumi, e un ordigno per trattenere le scintille, intorno al quale si ha l’impressione che l’aria si addensi, tremi anche adesso in un miraggio. Non un suono reale e non immaginato, non un rumore arriva fuori dall’interno di tutto lo stabilimento.
Il sole è a mezza corsa in cielo, in volo tra l’orizzonte, che non si può vedere, e la linea in controluce della cordigliera che, molto lontano, chiude la valle a ovest. La foresta scura evapora… cade una bacca… Come di consueto in quest’ora, che (già) volge al disìo, l’aria è tutto un volo di qualunque cosa voli, anche di insetti, e di richiami e di ronzii.
Spinsero la porta di vetro le due giovani turche. Cedette e si ritrovarono in una sala, vasta, oblunga o sbilenca, a pianta triangolare isoscele, pareti e pavimento di travertino opaco, poltroncine, non sedie, in tubolare metallico, sedute e schienali ben imbottiti di canapa non sbiancata, chic. Nella parete opposta alla vetrata una porta stretta di corten, e pesantissima a vederla. Le due giovani turche sedettero a caso, una vicina all’altra, in silenzio con gli zaini indosso, schiacciati tra schiene e schienali. Abbandonate alla comodità delle poltroncine a alla frescura di un invisibile impianto di condizionamento si scambiarono un’occhiata di difficile decifrazione, ma gentile. Di fianco alla porta notarono una finestra di cristallo, incastrato nel quale era difficile non osservare la capocchia non più grande di un proiettile di un microfono. Oltre, un locale isolato, una guardiola, la guardiola del custode : è lì, sbarracato in una specie di ovulo ergonomico, dormiva un uomo di qualche po’ di anni, il capo coperto da una berretta con visiera, l’ariata volgare che hanno spesso gli uomini dormienti, nonostante la divisa sobria priva di distintivi ; eccetto una sigla cucita sul taschino della giacca di taglio severo : Ave, da cui scucire il senso le ragazze non sarebbe mai riuscite.
Una delle due disse all’altra, Bir piramidin antechamber’i, eğer bir piramidin antechamber’i olsaydı ; che pressapoco sta a dire, (sembra) l’ anticamera di una piramide, se mai piramide ha avuto un anticamera.
Avranno altri autunni le maree, è l’ipotesi e l’ipostasi. Una rivoluzione nel pensare alla differenza data dall’essere fatti di pioggia. Non polvere ma acqua ; che incinerare non si può, passa in fumo, si nebulizza, un aerosol che torna nuvola, vapore acqueo. Silenzioso e umido plancton nel che nuotano gli uccelli. Amen e arrivederci.
Di’ un po’ musa,
Di’ che musica canti
e per chi, è la domanda, usa
la cortesia dei suoni.
Gli istanti.
Con oggi l’Elzemìro va in ferie fino a martedì 16 settembre. A tutti i lettori augura buone vacanze, a chi le fa e pure a chi non le fa ma che, almeno, possa godere del relativo benessere concesso dall’assenza altrui, dai cocomeri ghiacciati ai chioschi, dai gelati a sera prima di dormire, dall’odore di una pioggia benedetta.