L’ElzeMìro – Mille+infinito- La nuova tessitrice ovvero prognosi e presagi-Finale-Home

Mancano solo sette giorni alle fine anche di questo mese. Nel sogno che abbiamo registrato con puntiglio e che accompagnò una parte del suo viaggio da Milano, AC pronunciava queste parole chiave, chiave non sappiamo dire di quale serratura e sospese tra l’affermazione e il quesito ; con ciò per noi comincia il paragrafo più difficile di questa narrazione ché stiamo per trovarci infatti nell’obbligo di mettere ordine in un gorgogliare di pensieri eterogenei quanto confusi, di sentimenti o sensazioni in contrasto o, con più esatto plurale, di percezioni e, finalmente, di molteplici impressioni di ritorno – feedback – nel corso di un effettivo ritorno a casa… in questo momento stesso ci viene in mente che forse dovremmo invece definirlo partenza ovvero inizio ovvero… se questo fosse un disegno potremmo dire che sì, è ancora la matita peròil quadro complessivo per noi già è finito ma, alt un momento, finito oppure di inizio, bah, qui il punto di nuovo interroga. Ci serve far osservare che uno dei modi della riflessione, intesa come sguardo dello specchio allo specchio, è un privilegio per rari intimi ; può diventare vizio se la sensibilità richiesta per la riflessione evoca la voluttà di trovarsi a tutti i costi sensibili, di pettinare la propria sensibilità ossia, per parafrasare una di quelle espressione figurate care alle burocrazie, di presentarci come – gli unici, i sublimi – portatori di sensiblerie ; che il dizionario Boch traduce con : sensibilità leziosa o manierata. Il caro lettore, tanto l’anziano stanco di tante sottigliezze come il meno anziano propenso a misurare fatti e pensieri col metro di un darwinismo forzato, da decimazione per così dire, ebbene l’uno e l’altro tipo di lettore si sorprenderebbero forse a pensare che noi, come si diceva al tempo dei nefasti coloniali italiani, meriteremmo un po’ di Abissinia (al giorno d’oggi Libia Sudan Iran Afghanistan ma anche invernaderos di Almería e piana del Fucino). Come per dire, se ci sono rape per cena statevi contenti ; ma le rape sono rape. Con più clemente attitudine quegli stessi lettori ci inviterebbero a non indulgere nel presentare sassolini generici e disposti dal caso a caso come indizi e chissà, addirittura come sintomi di urgenze o architetture di simboli, quando i veri segnali, i segni segnosi hanno tutt’altra grinta. Insomma, supponendo che un qualcuno esista e insista in questa lettura, questo qualcuno magari avrà pensato o starà pensando che stiamo lisciando troppo il pelo al nostro maestro AC quando per designarlo, o farne la caricatura, basterebbe l’espressione maniaco di modeste quisquilie o anche la felice immagine di nevrotichino che si fa pipì sulle scarpine senza accorgersi che sono… le tue. Non sapremmo contraddire questa opinione, si verificasse né, peraltro, portare argomenti a convalida del suo contrario. Ci limitiamo a concludere l’arco del racconto. 

Intanto, poiché l’evento non appartiene alle consuetudini di questa linea ferroviaria Milano-Sondrio-Tirano, ci pare di buon auspicio dire che il treno RE2838 delle 19:20 da Milano Centrale a Lecco arrivò quella sera in orario. Dai finestrini del treno, per quella loro attitudine a srotolare il paesaggio in fotogrammi, ad analizzarlo e ricomporlo quindi, se, al passaggio del convoglio sull’Adda, uno avesse soltanto osservato fuori gli alberi avrebbe visto con che furia il vento li stava scompigliando, li sfrondava e obbligava anche i più robusti e i meno a crollare il capo di qua e di là e su e giù tanto che quell’uno avrebbe potuto temere di vederli stroncati e scaraventati i bronchi – bella parola vero – lontano, persino contro il convoglio in cui AC dormiva come un cittìno e sognava e che quindi non si avvide per nulla del crescendo della tempesta finché il treno non entrò nella stazione di Lecco. Non siamo in grado di asserirlo con certezza ma, nella carrozza in corsa, il via vai di portatili che si agitavano tra le mani dei viaggiatori come carte tra le mani di un mago, chissà che indicasse il frenetico invio di messaggi a mogli, mariti, madri e morosi ad invocare di essere rilevati alla stazione di Lecco ma, uh signùr bèl, in mezzo a quella piova : niente a che vedere con la piova manzoniana post epidemia, quando diciamo tempesta si immagini tempesta. Al passare del convoglio sul ponte di ferro di Lecco, AC si destò nel frastuono di una catastrofe – parte della tragedia classica in cui avviene lo scioglimento dell’intreccio – una catastrofe d’acqua ; fu tirato fuori dal sonno e dal sogno che stava sognando, ma con un emisfero del cervello ancora in un al di là dove vedeva sé medesimo nel déhors del famoso caffè Hanselmann e, a una giovane alta e stretta cameriera africana, una maschera di quelle gradite a Picasso per testa, con un tono tra il se e il forse, lui si ascoltava dire… mancano solo sette giorni alle fine anche di questo mese ; poco dopo riprese per così dire conoscenza dell’al di qua, abbastanza da osservare persone che salivano e sbarcavano dal convoglio catturate, appena sul marciapiede, da un’acqua del diavolo. Il treno ripartì e in breve sopraggiunse la noia per quel tratto di viaggio fino a Colico lungo un continuo alternato di lunghe e meno lunghe gallerie e brevi sprazzi di corsa all’aperto. Gli ci volle un niente per riappisolarsi ma senza dormire ; beato nella pioggia che con i fenomeni nebbia e neve e burrasca, fin dalla più tenera età lo traghettavano verso una squisita spiaggia limbàle, approdo di ritorno all’utero e alle delizie della placenta, magari senza che di questo desiderio avesse contezza ma, egualmente gustato. A Colico sbarcò aprendo di volata l’ombrellino che portava sempre con sé con una sciarpa per il nonsisamai ; per i piedi non c’era da preoccuparsi : lui indossava di regola scarponcini da trekking, ora leggeri estivi ora robusti, ora di peso intermedio come in questo caso, e tutti ovviamente impermeabili. La pioggia proseguì con andamento mosso come la corsa 1184 fino a Chiavenna dove nel buio più bagnato che si potesse immaginare, passato a cikciak su un tappeto di foliage fradicio, AC salì di volata a bordo del bus per Celerina. Erano le dieci di sera e l’arrivo previsto era dopo due ore e cinque minuti, comprensive dei settanta passi necessari dal postale al binario sei della stazione di Sankt Moritz a prendere lì l’ultimissimo treno per Chur con prima fermata a Celerina. Arrivo previsto e di solito rispettato al punto, mezzanotte e (zero) cinque.

C’è che la notte fa riconquistare alle cose, al paesaggio, le sue antiche stanze ;  per il suo carattere di involucro che ostacola e rigetta ma che è gradito a malinconici, sicari e sfegatati ; di vaso per gli incubi, per le fiabe più cupe, per lo smarrimento ; e anche per i lumini sperduti e queruli nelle stanze dei malati e nei cimiteri, infine per il tepore delle stufe dove qualcosa finisce sempre col consumarsi. Nella non lunga corsa verso Chiavenna il treno aveva attraversato la luce pubblica di paesini dai nomi filologici Dubino, Samolaco Verceia e dalla storia lunga e frammentata come tutta la storia di quelle valli alpine che videro opposti latini e goti, bizantini e longobardi e poi e poi e poi grigionesi luterani e veltiner cattolici. Storie di sacri macelli, di eccidi con il nome di dio sulle bocche storte. Alla stazione di  Samolaco (summo lacu) una ragazza in grigio, quasi morsa da un insetto, si scosse dal suo sedile e corse per scendere, e altrettanto rapide salirono tre donne sui cinquanta sussurrando tra loro in un lingua che ad AC parve ucraino ma non fu in grado di deciderlo ; le tre si accomodarono in fondo al vagone continuando a bisbigliare fino a Chiavenna dove il viaggio per lui avrebbe conquistato il primato dei notturni, intesi come chuchottements di Chopin. Per AC, il buio coincideva conla romantica frontiera letteraria dell’Oh-nacht e con la carta di certi panettoni della sua infanzia, carta blù oleata con impresse tante stilizzate stelle d’oro. A Castasegna la frontiera fisica, benché di fisico la frontiera non abbia nemmeno l’esiguità della linea tratteggiata dalla geografia ; alla frontiera tuttavia egli ogni volta sussultava, pronto a una svolta fatale, al passaggio di un limite… per quanto lo avesse indagato non aveva mai capito con precisione perché lo commuovessero… le frontiere, specie le secondarie, le isolate, quelle riconoscibili a volte solo per una casermetta in abbandono,, per un piccolo bunker in certi luoghi, per moncherini di cemento che già sostennero una tettoia in altri o per meno ancora, per un semplice cippo, oppure per una rete ingombra di lauro e rovi e pruni sterposi. Spesso le sue lunghe e appassionate escursioni in montagna avevano come meta un confine; vi si avvicinava di premura, segno del valico vicino, a volte un ruscello, altre un torrente da guadare ; il di là da quella gli suscitava da sempre un fermento, una ricca rappresentazione dell’oltre. Questo in special modo tra Italia e Svizzera. Il moto contrario gli procurava invece un soprassalto di malinconia, uno scoramento, un recalcitrare all’idea del ritorno a casa ; espressione questa che per lui non aveva mai avuto abbastanza senso dal riconoscerla dominante di sé. A casa, accasa, a-casa, le declinazioni, ovvero le intonazioni con cui si può modulare quest’espressione così semplice, per lui escludevano il piacere intenso che, in molti, chi più chi meno, significa focolare, home e non house. Heimat persino. Tante volte aveva attraversato anche a piedi il confine di Castasegna, con le poche case di qui dal ponte che separava… due mondi… e il paese di là con il suo negozietto al profumo di cioccolato e legno. Se all’andare era tutto eccitazione, al tornare lo invadeva una nube acida. Ma non si trattava di riflusso. Per questo aveva deciso di trasferire la propria residenza in Svizzera e ormai aveva avviato la pratica per la cittadinanza. Non che in Engadina, interrogato, avrebbe risposto di essere a casa. Heimat. In lui era assente il senso di appartenenza a qualsiasi cosa, tranne…trenne vedremo a che cosa ; non aveva mai tollerato la condizione di uomo sposato, malgrado l’avesse cercata e poi, appunto, dismessa. La Svizzera gli procurava l’audace ebbrezza di non esserci, da nessuna parte pur godendo del suo opposto. 

Una breve colonna di fari anabbaglianti incrociò il postale in direzione contraria, verso valle, e svanì nel buio. Il buio della mortela mia, gli attraversò il cervello questa sorta di didascalia, un balloon, comune a chiunque abbia superato i sessant’anni e avanzando da quell’età in avanti, osservi la frequenza con cui apprende la morte di coetanei o di pochissimo più grandi.Passata appena Casaccia, all’attacco della salita per Maloja, il regalo d’autunno. Lui chiamava così la prima neve : un regalo. La pioggia che fino a quell’ora era caduta con la monotonia dei capelli d’angelo era adesso neve soffice e bella : come cenere, gli venne anche in mente ma si sforzò di non proseguire per associazione. Aveva freddo e delle persone partite da Chiavenna erano rimasti in tre sul postale, oltre all’autista, lui e una cameriera africana che scenderà tra poco a Maloja Kulm al chiarore delle insegne degli alberghi e forse di un ristorante, peraltro già chiuso. Si strinse bene nel soprabito, AC e si riaccomodò con gesti di attenzione la sciarpa. L’autista aumentò il riscaldamento della cabina.Del tempo lui aveva un’idea fisica piuttosto precisa, sapeva dentro di sé quanto durava la sua quinta, quanto ognuno dei numeri dei due atti del Don Giovanni di Mozart e di ogni opera  che aveva diretto o che avesse soltanto studiato conosceva le durate. Guardò fuori : fermi a Maloja Kulm, Infiniti spazi e sovrumani silenzi di là da quella, un presentarsi ai finestrini di un altro mondo, un mondo di luce debole e rifratta dalla neve, sosta di una gita sempre avanti nel nulla. Cartoline : la bella costruzione di legno dell’albergo Schweizerhaus… Haus… un grande camion con un’enorme lama spartineve montata al frontale fermo davanti al postale fermo ; l’autista che si sporge dal suo posto di guida per parlare fuori dal suo finestrino con qualcuno giù sulla strada ; di quello che AC capisce del ladino usato dai due, la traduzione è che nevica bene ma non da abbastanza tempo, la strada è discretamente pulita perché è ancora bagnata di pioggia e non c’è pericolo di verglas. La cameriera africana era scesa, lei e il suo trolley e forse era una che lo conosceva perché salutò l’autista in italiano, sctà bén nè ciao. Fu in quel momento che AC fu colpito da una freccia… i tedeschi, popolo cui è toccata la lingua della psicoanalisi e della bennata filosofia tedesca, hanno una parola per definire un’incerta cosa, Sehnsucht ; a sud delle Alpi con poca destrezza la si traduce nostalgia ; macché, piuttosto è struggimento di qualcosa che non si sa, non s’è vista né vissuta, nostalgia dell’inarrivato ; dice lo Zanichelli che Sehnsucht è parola chiave del romanticismo tedesco ed esprime la ricerca di un desiderio inappagabile, lo struggimento per una persona o per qualcosa di distante, di irraggiungibile di cui si sente dolorosamente la mancanza… insomma pensò a quella donna nera come la notte e così lontana dal suo, pur non essendo tedesca e nemmeno grigionese per quanto magari grata e felice di essere lì a fare la cameriera, fosse quello il suo mestiere o un altro più umile ; lo colpì quella freccia insieme con un’altra Sehnsucht : quella dell’autobus di quando era bambino ; Sehnsucht per il posto di guida e andare andare, e macinare strada e soste e strada : piova neve e nebbia. Il postale ripartì con AC ormai solo a bordo. Di rado gli capitava ma cercò di parlare con l’uomo, qualche mezza frase in ladino, lingua che non era riuscito, né tanto meno voluto imparare, tra le tante che usava senza difficoltà ; dopo poche battute cui il conducente rispose, cortese ma attento alla strada si svolse un dialogo sforzato in tedesco, per entrambi si trattava di sfollare i dubbi, nonostante la rassicurazione ladina, circa la praticabilità della strada del ritorno a casa, zuhause. Schwere Nacht, nicht wahr? – Na ja – Wo wohnen Sie, hier im Tal oder? – Ziemlich… in Susch  wissen Sie – Selbstverständlich… So müssen Sie nach oder – Ja ja, ich parke mein Auto im Moritz und in nicht mal… vielleicht zehn Minuten bin nach Hause ja ja – Zu Hause. E l’autobus incedeva tranquillo. Con la neve che sembrava aprirsi al passaggio del postale, per poi scivolargli sui fianchi e chiudersi dietro illuminata dal rosso dei fari di posizione. AC si voltò un attimo all’indietro e l’alone rossastro di neve gli riportò due versi di Brecht, un ritornello, wo sind die tränen von gestern abend wo ist der Schnee vom vergangenen Jahr -dove sono le lacrime di iersera e dove la neve dall’anno passato, che gli suonava, le parole proprio, più della musica che Weill ci aveva costruito. Pensò a chi aveva cantato nel tempo quelle parole e, nur die Stratas, disse in tedesco tra sé, solo la (Teresa) Stratasera riuscita a cantare quelle parole. Da quel punto, quasi in simultanea ma per altro sentiero gli vennero incontro gli ultimi quattro Lieder di Strauss che lui ricordava perfetti solo con la voce della Schwarzkopf, solo lei, con Szell sul podio ; e man mano che l’autobus procedeva procedevano in lui immagini e suoni e persone a lui care, preterite, della sua vita finta, la vita falsa di cui scrive Mann in La morte a Venezia ; la Morte, ohi ohi. Ricordava le ultime parole che lui ricordava del suo amico caro, il direttore Carlos Kleiber – ma scomparso da un pezzo – ; Kleiber gli aveva si può dire illuminato l’insufficienza del loro mestiere di direttori, l’inanità del cercare il suono esatto, che la magnificasse certa musica maxima e invece bisognerebbe lasciarla dov’è, magnifica com’è sulla carta, solo da guardare, sospirare, immaginare e non eseguirla più per non contaminarla. La vita ficta, la vitafalsa e solo determinata dall’arte, dalla musica, immolata come tale alla musica, per la quale alberi, bambini, uccelli e pesci, persone amate e la morte stessa non erano che complementi d’arredo, prospettive, e tutto ciò piano piano gli si srotolava come un bel piumone, non capiva se dentro o fuori di lui, in ogni modo di morbidezza e calore… uh, il lettore ci voglia perdonare questa metafora tronca e di non sorprendente felicità. La vita ficta, nella musica, era il suo back home.

Per inciso : qualcuno potrebbe dire che il ricorso, per quanto esile a Mann a Brecht a Strauss, ad alcune vette insomma, sia atto di puro brigantaggio ; per arrivare là dove non si arriva con mezzi propri, rubare ; ma contestiamo : occorre domandarsi chi sia in grado di arrivare ovunque, di aprire sempre nuove strade infischiandosene o, meglio, ignorando las estelas en la mar, scrive Machado, le scie delle rotte percorse da altri, a migliaia ; inoltre, ci è stato detto e ripetuto che arrivano alla mecca anche i pellegrini zoppi, più tardi ma arrivano. Sicché dichiarare da minori, la propria complicità con i maggiori, amati se non altro per essere arrivati prima, per tempo, su una strada che noi, adesso, in ritardo, affrontiamo con i nostri, con altri mezzi o di quei maggiori facendoci stampella ebbene, se ci pensiamo con serenità, d’altro non fa fede che di onestà. Almeno intellettuale che non è un errore, anzi è forse  intelligente, e poi, citare pare faccia cultura e cultura, alla lettera, come altrimenti e meglio si manifesta se non riseminando il campo ancora e ancora là dove altri chissà quando hanno già raccolto. È una domanda.

A Celerina nevica l’indomani mattina. Mentre nel buio dell’alba, consumava piano piano la sua colazione AC osservando la neve scendere e, senza che ci fosse una relazione di tempo o di intenzione tra le due cose, decise che con la sua grossa e costosa Land Rover serie III che utilizzava giusto per non farne scaricare la batteria ma che teneva sempre pronta, pulita ed oliata a modino e con montate sempre le quattro grosse ruote invernali, sarebbe andato a Samedan, due chilometri e seicento metri lontano, al supermercato Migros ; a fare… le spese, ovvero a perdersi come un pinocchio nel paese dei balocchi, dei desideri, alla soddisfazione e poi alla frustrazione dei quali si edificano oggi  supermercati come un tempo templi ad Apollo. Non comprava per bisogno ma per gusto : bellissimi quaderni, matite e penne, le confezioni più colorate di cioccolati, i saponi e i detersivi che maggiormente riscaldavano la sua sua convinzione di ecologo dilettante ; quella mattina comprò anche un nuovo coltello svizzero di un modello che ancora non possedeva, non rosso, ma tutto di acciaio zigrinato, una bellezza ingegnosa. Verso mezzogiorno era al ristorante Migros, un selfservice tutto di cristalli affacciati sul poco affascinante stradone del quartiere industriale di Samedan, tra la pista del piccolo aeroporto e il Migros stesso. AC si è riempito il vassoio di molteplici portate, compresa come è ovvio una grossa tazzona d’acqua bollente nella quale ha tuffato una discreta bustina di tè e una fetta enorme di una torta di germanica succulenza. Seduto a un tavolo isolato, AC osserva la neve che fuori insiste da ore, il consueto silenzio che essa porta con sé, un silenzio compatto, così sensibile che gli avventori di norma e per natura bisbiglianti, ora parlano pppianissimo, battiti d’ali, niente. Da questa radura di silenzio salgono questi ultimi versi di Carmilla Rosìni…

Ses gants, ses veloutés bijoux
De mannequin Chanel, ne manque jamais
La mort, ma dame, à tous ses rendez-vous
Lors d'un concert, d'une soirée cultivée
Aristocrate, ange aux robes violettes
– prosaïsme des obsèques sa larve en noir –
C'est la violette, sa favorable fleur,
Son habituel porte-bonheur.
Malgré ses lèvres du rouge désertes
Sous un soleil à la mine indécente,
Elle préserve aux siècles, les sertes
De sa fraîcheur exquise, et éblouissante.


FINIS

Pasquale D'Ascola

P. E. G. D’Ascola Ha insegnato per 35 anni recitazione al Conservatorio di Milano. Ha scritto e adattato moltissimi lavori per la scena e per la radio e opere con musica allestite al Conservatorio di Milano: Le rovine di Violetta, Idillio d’amore tra pastori, riscrittura quet’ultima della Beggar’s opera di John Gay, Auto sacramental e Il Circo delle fanciulle. Suoi due volumi di racconti, Bambino Arturo e I 25 racconti della signorina Conti, e i romanzi Cecchelin e Cyrano e Assedio ed Esilio, editato anche in spagnolo da Orizzonte atlantico. Sue anche due recenti sillogi liriche Funerali atipici e Ostensioni. Da molti anni scrive nella sezione L’ElzeMìro-Spazi di questa rivista  sezione nella quale da ultimo è apparsa la raccolta Dopomezzanotte ed è in corso di comparizione oggi, Mille+Infinito

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