L’ElzeMìro – Favolette brechtiane-Il fratello dei Grimm

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                                                                                                         The Arrival, 2017 Julio Larraz (1944)

C’era una volta e due tre nel cuore nero della bianca Europa un brav’uomo. Da quelle parti ci nevicava sempre, anche in estate, non che attaccasse s’intende, ma nevicare nevicava, non tutto il giorno s’intende, ma nevicare nevicava e, come cantava un antico trovatore, la neve rende i cuori di ghiaccio; fatto non dimostrato, s’intende, né dimostrabile ma le canzoni si sa come sono, girano come la neve nell’aria e ascoltarle è una tentazione, peccato. Ma tornando al brav’uomo c’è da dire che non era amabile ma nemmeno cattivo, intelligente forse che sì forse che no, difficile dire com’era da tanto stava a metà e anche meno d’ogni cosa, non aveva amori perché come tutti, tranne i gatti, non sapeva che cosa si provi quando si ama qualcuno, ma per fortuna non aveva libri di ricette. Insomma il brav’uomo era una landa innevata e tranquilla. Dunque non trovereste signore e signori il suo nome in Wikipedia se non per confonderlo con quello dei suoi due fratelli, di tutt’altro tipo, gente di penna si sa non di ascia come il nostro brav’uomo, il minore dei Grimm che di mestiere era guardaboschi e mobiliere. Faceva Grimm di cognome e basta, in quanto alla nascita i genitori ai due primi avevano dato anche un nome di proprietà, e a lui, solo 3, scritto come si pensa, un numero, in ordine alla sintesi e al risparmio, abitudine della gente o molto ricca o molto povera; gli altri investono. Questo terzo fratello Grimm c’è da dire che non era risultato simpatico né ai genitori né tampoco ai due fratelli maggiori, così una volta nutrito, lavato, vestito e stirato lo avevano spedito là nella foresta del margravio di Bielalitzskj perché si smammasse e imparasse un mestiere. Così era stato affidato al vecchio guardaboschi dal  quale appunto aveva appreso anche il lavoro di mobiliere; che è un modo di far rendere i boschi, o altrimenti, pensano alcuni, stanno lì per cosa a ergersi nel cielo e a non dire e non far niente; ombra vabbé, ma è roba per pochi schienucce di vetro. 

Compito di Grimm 3 era di guardare che la grande foresta del margravio di Bielalitzskj crescesse e si moltiplicasse. I margravi, sia detto così per fare un po’ di storia, esistevano da quando esisteva la foresta e nessuno sapeva da quando; che era abitata da animali e spiriti della foresta sì certo era noto ma niente di più, niente di meno e il margravio, che altrimenti viene a dire padrone, ai suoi spiriti ci teneva come a sé stesso e a sua moglie la bella Bielalý. Anche il margravio, uguale alla foresta niente faceva che fosse inteso qualcosa, e nemmeno ombra; i mestieri li avevano gli abitanti di Bielalitzskj, paese che è difficile trovare sulle carte e se è per questo anche lì nel cuore nero tanto è distante da tutto e incastrato tra la foresta che si dirada e i bastioni collinari di una terra con scarsi abitanti, pochi paesi e senza ferrovie, e chiusa a nord, sud ed est dall’arco imponente della catena alpina dei Biel; Bielalitzskj ne è per così dire la capitale, col suo castello, detto del margravio, il suo fiume, la Litzka che scende dai Biel, aggira e gira e rigira per le colline di Tzka, e dopo si inoltra anche lui, oh pardon signore e signori il fiume non è una persona, anch’esso s’inoltra nella foresta là dove andava solo Grimm 3 e solo fino a un certo punto perché tanto ben lo sapeva che la foresta è il regno degli animali e degli spiriti della foresta. Lui guardava gli alberi, segnava i più vecchi e malati da abbattere per far posto a quelli nuovi e robusti adatti a fabbricare i mobili di Bielalitzskj, non uno di meno non uno di più. E il margravio, sì anche il margravio aveva mobili fatti col legno della foresta, non uno di meno, e nemmeno uno di più. 

Questo viene a dire che a Bielalitzskj e in tutto il circondario, i mobili non mancavano mai, così tanti che di tanto in tanto Grimm 3 lasciava che gli alberi continuassero a vivere finché era loro destino. Poi servivano anche a far fuoco nelle innumerevoli stufe del paese, ma un albero dava fiamma e calore per un anno e forse più, perché gli alberi della foresta erano di un legno così duro che ad accenderlo poi nel camino, occorrevano e cartacce e fascine e non poca pazienza, ché il legno sembrava dicesse, Se vuoi che ti scaldi caro mio, aspetta la primavera. A Bielalitzskj circa stagioni e calendario eran però tutti sospettosi piuttosto, e tutti si guardavano bene dal dirsi buon anno a capodanno e auguri e cose di questo genere. A Bielalitzskj tutti si auguravano al massimo che continuasse così e al minimo non si auguravano niente. A Bielalitzskj per molti versi sapevano che tacere è una gran cosa. A Bielalitzskj peraltro del tempo, nevicando sempre, la continuità era garantita. A Bielalitzskj nessuno avrebbe detto, Eh un bel dì vedremo, perché il dì bello o brutto si apriva e si chiudeva costì sempre alla stessa maniera; al mattino faceva luce e alla sera, soprattuto se in quel momento nevicava, sembrava che la neve, arrivando da chissà dove lontano, trasportasse con sé la luce imprigionata negli innumerevoli specchi dei suoi fiocchi, la luce che essa per prima, guardando le cose dall’alto come fa la neve prima di cadere, aveva visto apparire da là dove la terra gira e non si sa dove e se, finisca o no. La tenebra a Bielalitzskj era tenebra per così dire, se anche non si vedeva alcunché si vedeva bensì un niente non del tutto nero, tale cioè che chiunque fosse capitato da quelle parti, avrebbe detto, Che strana luce quaggiù nella notte. È ovvio che si sarebbe sbagliato, era tenebra, ma è comune che ognuno dica la sua circa ogni cosa che non sa e non guarda di che cosa si tratta. Anzi capita spesso che di ogni cosa, ogni uno dica che è qualcos’altro e se la immagina e se la racconta più che osservarla, con tanti di quei particolari e così convincenti per lui, da farlo contento di quel che si racconta.

Grimm aveva due figli di cui non abbiamo detto e tutti e due avevano nome Grimm  4 & 5 con la & commerciale di mezzo, e Grimma era la moglie di Grimm che glieli aveva partoriti quei due, una bimba e un bimbino, per natura assai poco contenti di tutto, a giudicare dai faccini brillanti ma che guardavano sghembi d’intorno. Con ciò per lo più per il babbo erano Grimm e se li chiamava per qualche motivo (prendimi gli stivali, accendi la luce, metti sul fuoco il caffè – non il caffè in generale e non tutto, solo quello a bollire nella caffettiera – non sapevano, non capivano chi fosse tra i due il chiamato e questo l’innervosiva, li spingeva a strillare, Insomma babbo chi vuoi 4 o 5. Il margravio però di quei mezzi  capricci non ne sapeva niente ed era contento di quei due bambinetti che un giorno opportuno avrebbero sostituito il vecchio Grimm nel lavoro principale di tutto il paese, guardare il bosco e fabbricare mobili. 

Benché fossero i due una femmina e un maschio, si distinguevano appena, tanto erano uno per l’altro bellini agli occhi dei passanti, passanti pochini a Bielalitzskj per la verità, e molto robusti, i due fratellini non i passanti, abbastanza da saltare a cavallo da fermi senza issarsi sulle staffe. Così oplà, un bel giorno, sempre per modo di dire, i due fratello e sorella decisero trotterellando tra loro a cavallo che era ora di lasciare quei due genitori al loro piccolo mondo, al loro piccolo destino – Grimm 3 aveva squadrato per sé e per la Grimma due belle casse da morto e le tenevano sotto il letto per se a caso – e andarsene via, via per la foresta; il perché non sapevano dirselo con precisione, Chissà che magari incontriamo una casetta di cioccolata e una strega da buttare nel forno, fantasticava la piccola con gli occhi luccicanti al fratello; ma sì o no decisero intanto di allontanarsi, prima di essere allontanati così come capitò al nostro babbo, si dissero all’unisono guardandosi in viso e, Hmm tiè. Ma, a quanto pare, a quanto si mormora accanto alla stufa nel ristorante dell’albergo Alla bella Bielalý (in onore della moglie del margravio), dove scendono i mercanti a contarsela su e a contare i denari, i due piccini a cavallo presero una strada sbagliata, seguirono da tanto era bella la Litzka  che si addentrava tra gli alberi e segui ora segui poi, venne la notte e nevicava. Non che ne fossero stupiti e c’erano abituati, si avvolsero ben bene nei loro grandi mantelli, calzarono meglio i calzoni negli stivali di feltro di lana, spazzarono la neve d’intorno e si misero a dormire in terra su un lettino di muschi e licheni. Il giorno dopo ripresero il cammino, e più la bella Litzka si addentrava, e suing e suang e suong, più loro si addentrarono nel fitto della foresta, finché pfiù, visti da qui non si videro più. Il margravio che aveva a cuore la vita dei suoi ordinò una battuta, Presto si sleghino i cani, e di persona se ne mise alla testa col vecchio Grimm – nelle fiabe è assai noto che presto s’invecchia – si mise sulle fatte dei cavalli, a toccare annusare caso mai fossero tiepidi i resti dei focolari che via via i due avevano acceso per scaldarsi, e prepararsi del che avevano preso alla dispensa di casa; tutto fu indagato fin dove i cercatori poténno. I cani da fiuto alla fine si trovarono a girare tondo tondo confusi; e mistero, più niente. 

Fu così che il Grimm dopo aver riposato non poco e lasciata la Grimma a riempire la casa di lacrime e pianti – da non dirsi quanto gli davan fastidio –  partì di nuovo per la foresta e nessuno seppe mai spiegarsi il perché, poiché si sa che nessuno cerca qualcosa o qualcuno se non c’è. Grimm avanzava ben dentro tra rami, e cespugli alla cieca. Avanzava e avanzava e tagliava e sfalciava, qualcuno direbbe decapitava, ma poiché gli dispiaceva fare tutto quel legno senza uno scopo, prese bel bello sul suo cammino a fermarsi qua e là  per fabbricare mobili – ah l’istinto signore (e signori) sentite che fa – mobili che squadrava a colpi d’ascia, mobili semplici e senza chiodi, incastrate le assi tra loro, solo un goccio di colla che del resto il Grimm grattava via dagli abeti, dai pini, dai larici, dai cembri, dai loricati. Se qualcuno tra voi signore e signori trova illogica e incongruente questa storia come procede, si domandi un secondo se al mondo quale tra i fiumi ha mai visto tirare a diritto o se qualcosa si svolga o finisca in modo coerente o corrente. Il povero Grimm 3 non sapeva né quel che faceva né dove andava e tante volte dovette incontrare un mobile dei suoi a mostragli palese che era tornato in tondo, come i cani, su suoi passi e per cambiare, allora cambiava la strada; finché dovette essergli del tutto evidente che si era perso, per strada, finché come dirlo sbucò al bordo di un enorme parcheggio di mobili, tutti costruiti da lui e non se n’era accorto; pochi alberi superstiti si ergevano tra la mobilia come pali per l’elettricità, ce ne fosse stata. E nevicava e faceva freddo. Un freddo terribile perché al contrario che nel fitto della foresta dove chissà perché dalla terra un po’ di calore sale o chissà emana dall’anima dei tronchi, lì in mezzo ai mobili niente. Solo il freddo di ante, sedie, casse e cassetti. Il brav’uomo per la prima volta conobbe lo scoramento, vale a dire quel sentire il cuore che scivola fuori da dentro verso dove chissà, tanto che sembra non avere più voglia di alcunché, sia quel che sia.

Poi per gironi e gironi non successe niente; nessuno può dire ma si dice che per ripararsi dal freddo il brav’uomo avesse trovato un rifugio, non in un armadio, ben scarso riparo capirete signore e signori, ma in una capanna costruita lì per lì. Il vecchio Grimm aveva persino un acciarino, strumento che ormai nessuno usa più. Si dice così alla Bella Bielalýche il brav’uomo ammassò nel camino di legno un gran monte di trucioli, e rami secchi piccini e più grossini e appiccò il fuoco che prese di lena, e farla breve si attaccò alla casetta impeciata, al parcheggio dei mobili e poi alla foresta e, per sicuro anche a Grimm che dicono via, pouf svanito tra lingue di fuoco e nel fumo che salivano alti verso la neve che scendeva dal cielo. Le fiamme sì signore e signori si alzarono tanto da fare luce fino a Bielalitzskj, il paese. Una luce sfavillante di antico terrore. Ché la fiamma dura ad oggi ancora. E con la neve cade spesso una tiepida cenere.  

 

 

Pasquale D'Ascola

Pasquale Edgardo Giuseppe D'Ascola, già insegnante al Conservatorio di Milàno della materia teatrale che in sé pare segnali l’impermanente, alla sorda anagrafe lombarda ei fu, piccino, come di stringhe e cravatta in carcere, privato dell’apostrofo (e non di rado lo chiamano accento); col tempo di questa privazione egli ha fatto radice e desinenza della propria forzata quanto desiderata eteronimìa; avere troppe origini per adattarsi a una sola è un dato, un vezzo non si escluda un male, si assomiglia a chi alla fine, più che a Racine a un Déraciné, sradicato; l’aggettivo è dolente ma non abbastanza da impedire il ritrovarsi del soggetto a suo Bell’agio proprio ‘tra monti sorgenti dall’acque ed elevate al cielo cime ineguali’, là dove non nacque Venere ma Ei fu Manzoni. Macari a motivo di ciò o, alla Cioran, con la tentazione di esistere, egli scrive; per dirla alla lombarda l’è chel lì.

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