Il grido – Luciano Funetta

Titolo: Il grido
Autore: Luciano Funetta
Data di pubbl.: 2018
Casa Editrice: chiare lettere
Genere: letteratura contemporanea, letteratura italiana
Pagine: 120
Prezzo: € 16,00

“Lei, Lena, era nata di notte, nel mezzo di una caccia selvaggia. O almeno così le aveva detto un’indovina al luna park, una maga nera”.

Lena Morse, orfana, cresce nella casa delle Dame, in una città spiaggiata, come una balena morente, sull’arenile di un futuro imprecisato. Lena ha un dono. Tra le ragazze della vecchia casa, è l’unica a percepire, sommesso e inquietante, il respiro di un inquilino invisibile. In età da lavoro, Lena è assegnata ad un mestiere: addetta alla pulizia di caseggiati, enormi e semiabbandonati. Qualcuno li abita ancora? Lena avverte presenze. Ormai adulta, scorge ombre e sagome irreali, nascoste negli angoli e dietro i vetri. I paradisi artificiali predisposti dalla “municipalità” non ottundono il suo  talento. La giovane donna, attraversando sentieri digitali costruiti ad hoc per divertire (in senso etimologico) le menti degli abitanti dalla disumanità quotidiana, inciampa in reiterate “anomalie” tecniche. Un difetto del sistema o un inaspettato spazio di libertà, aperto di fronte a lei, incauta esploratrice del proibito? In un altrove iperreale troverà riparo dal grido mostruoso che la incalza?

Luciano Funetta, al suo secondo romanzo, conferma la sua vena di scrittore in stato di grazia, dopo il perturbante esordio di due anni fa, Dalle rovine. Là, era una storia segnata dalla pornografia e da un’insana passione per i serpenti, qui l’oscenità sembra aver contagiato, a seguito di un tracollo etico e politico collettivo, l’intera civiltà umana. Il giovane autore pugliese dimostra una rara capacità di assimilazione di modelli del fantastico, classici e meno classici, da Edgar Allan Poe a H.P. Lovecraft, passando per il cyberpunk di Bruce Sterling e di William Gibson, senza dimenticare l’inevitabile pietra angolare della fantascienza filosofica, P. K. Dick e, last but not least, il celebratissimo (con pieno merito) padre putativo del post-esotismo, Antoine Volodine.

Nella migliore tradizione del genere, lo sguardo allucinato abbraccia un orizzonte lurido, plumbeo, tumefatto da orrende piaghe sociali. Uno sguardo, però, ripiegato sul presente. È di noi che Funetta scrive. Ed è la morte ad ottenere, nuovamente, la sua attenzione. Morte come non-essere che richiama, disperante, l’essere, morte come contraltare osceno, fuori quadro, di una realtà sfibrata e brutale, morte tanto più onnipresente quanto più esorcizzata. Morte, ne Il grido, sterilizzata, ridotta a peep show virtuale, dove le tombe di parenti e amici, inesistenti, sono riprodotte sullo schermo di un computer e collocate in cimiteri altrettanto inesistenti, un’immagine letteraria vicina alle suggestioni contenute in un film di fine anni Ottanta, Speaking parts di Atom Egoyan, un regista accostabile, per la fredda indole visionaria, a Luciano Funetta.

Chi sono i ragazzini mutanti dell’Orto Botanico, se non gli ambasciatori di una futura umanità in rivolta, quasi irriconoscibile, soggetta a incredibili forme di adattamento e di mimetizzazione? Mendel (surreale nomen omen), oscuro istruttore di esperienze psichedeliche, le “sessioni di oblio”, totemico capo della banda dei giovani psy, punto di contatto, convergenza e fusione tra umano e vegetale, non estremizza forse, nella sua essenza deviata, il delirante proposito ultradarwinista dei transumanisti? Diventare altro, accettando su di sé, sul proprio corpo, vero campo di esercitazioni, l’incedere del processo degenerativo… Luciano Funetta immerge la sua prosa in una soluzione tossica, nera, acidissima e ribollente di ironia abrasiva. All’uomo, in questa profezia distopica d’autore, si richiede un salto evolutivo ma l’esito del tentativo è l’opposto di quanto sperato. La resistenza alla bestialità sociale sta nel regredire a pianta, nel brillare al buio come un insetto, nel commistionare sangue e linfa, nell’utilizzare risorse tecnologiche antiche al fine di aprire brecce nel sistema, come fanno i Dormienti, untermenschen dall’alto livello intellettivo, neopirati dello sciame digitale, organizzati in colonie simili a formicai.

E poi, c’è il Bar Kraken, covo notturno di efferatezze, in cui trovano rifugio angeli dalle ali spezzate e sadici tutori della legge. Il lettore si imbatte nella ex puttana-bambina Love Love, nel violentissimo sbirro Tito e nella perversa guardia giurata Monatti, nella giovane vittima designata Duilio e in un gruppo di immigrati dell’est, tra i quali emerge Stepan, amante di Lena e vedovo di Carmen, suicidatasi dopo una violenza sessuale feroce. Il livido, melmoso caos della post-civiltà inquadrata da Luciano Funetta turba per la cifra di verosimiglianza, di attinenza con la nostra attualità, presente in esso: totale assenza di ascensori sociali, fissità corporativa delle categorie lavorative, distruzione dei diritti individuali, sfacelo dei rapporti umani, afasia comunicativa tra le persone, chiusura ermetica dei gruppi, degrado ambientale inarrestabile, perdita di memoria storica, desiderio di maternità represso dalle logiche del potere. Le pagine de Il grido indicano una direzione malvagia, un inferno da scansare.

L’invasione, quella reale che stiamo già subendo, si chiama furto di spirito critico, cecchinaggio mirato della libertà umana a vantaggio di forze esterne, impersonali e inattaccabili. La letteratura d’impegno è sempre incubatrice di messaggi di allarme che sarebbe folle, ad ogni livello, non prendere in considerazione. Di fronte alla mole di opere recenti, negative e cupe rispetto alla percezione del nostro destino collettivo, si impone una riflessione da sottoporre all’opinione pubblica, al decisore politico, ai nostri ‘avvocati del popolo’ e ai gruppi dirigenti tutti. Funetta denuncia il naufragio della tecnica, anzi, delle tecniche al plurale. Nasceremo comunque orfani, esclusi, amputati dei riferimenti culturali ed educativi che ci rendono cittadini consapevoli? Saremo declassati al rango di manichini, a simulacri inespressivi, a zombie caracollanti incapaci di vivere (un’intuizione, anche, dell’ultimo Don DeLillo)? È questo il battesimo, il marchio animale che ci aspetta?

“‘Noi vi abbiamo accolte, vi abbiamo salvate’ avevano spiegato le Dame. ‘Diventerete sane lavoratrici. Le vostre menti saranno limpide, impermeabili a ogni assedio. Ricordate che se mai un mostro entrerà nelle vostre vite, lo farà perché sarete voi ad aprirgli la porta. Lasciate chiuse le porte e vedrete che nessuno entrerà.’” Ci vuole coraggio, il medesimo coraggio di quando veniamo al mondo, affacciati allo stupore, per aprire la maledetta porta (un evergreen del genere horror) e sfidare a duello l’inquilino interiore. Il grido è solo l’assurdo, quel nulla che assaporiamo tutti i giorni, l’orrendo demone figlio e padre dei nostri ricordi, dei nostri traumi. Il grido è un incendio necessario, un brivido, una soglia da attraversare verso un definitivo, catartico abisso di non ritorno. Come canta Thom Yorke, scomparire, disappear completely, sì, ma per sfuggire al mostro, per non essere mai più ritrovati.

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Salentino nato "per errore" a Como (anche per ammissione di chi lo conosce), si laurea in Filosofia a Milano, con una tesi sul concetto di guerra umanitaria. Vive a Bari con Mariluna. Adora il Mediterraneo, ama Lecce, Parigi e Roma. Sue passioni, a parte la buona tavola, sono la letteratura, il cinema, il teatro e la musica. Un tempo, troppo lontano, anche la politica. Suo obiettivo è difendere, e diffondere, la pratica della buona lettura. Recensisce i libri meritevoli di essere considerati tali, quelli che diventano Letteratura, con la L maiuscola, e che gli lasciano un segno. Alessandro scrive con regolarità su Zona di Disagio, il blog del poeta e critico Nicola Vacca, collabora con la rivista Satisfiction, anima il blog di economia e di politica Capethicalism, e scrive di serie TV su Stanze di Cinema.

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