Il colombo d’argento – Andrej Belyj

Titolo: Il colombo d'argento
Autore: Andrej Belyj
Data di pubbl.: 2018
Casa Editrice: Fazi editore
Genere: letteratura russa, Romanzo
Traduttore: Carmelo Cascone
Pagine: 378
Prezzo: € 18,00

Andrej Belyj è uno dei più grandi scrittori russi di tutti i tempi. Nato a Mosca nel 1880, all’anagrafe Boris Bugaev, l’autore de Il colombo d’argento assunse lo pseudonimo Belyj (il colore bianco) ad indicare, come ha commentato Pietro Citati, “lo zero, perché solo da esso tutti i colori, vergini, sono nati”. È importante richiamare la dimensione ‘cromatica’ della sua scrittura. Chi legge i romanzi e le cronache di viaggio di Belyj incontra vivide descrizioni dell’ambiente, urbano o contadino, tanto simili al gusto descrittivo della prosa gogoliana e accostabili, per forza visionaria, alle composizioni incantate di Marc Chagall. Amico del poeta Aleksandr Blok, con esso Andrej Belyj condivise la passione per le concezioni mistico-filosofiche di Vladimir Solov’ëv. Tra il 1913 e il 1916, lo scrittore abbracciò l’antroposofia di Rudolf Steiner, tanto da partecipare alla costruzione dell’edificio di ‘culto’ degli steineriani, lo Johannes Bau, a Dornach, nei pressi di Basilea. La scienza del ‘sacro Graal’ come via di accesso al vero Cristo, il sentimento di un’Anima del Mondo, la critica alla civiltà occidentale rea di aver smarrito l’essenza della religione cristiana, il concetto di perfettibilità dell’Ente-Uomo da ricercarsi nel ciclo delle reincarnazioni… sono solo alcuni temi, tra i tanti, coltivati dall’autore all’interno di una temperie sapienziale vastissima e profonda, raccordata all’occultismo e alle discipline teosofiche.

Il colombo d’argento, scritto nel 1909, è un capolavoro. La lettura sedimenta nell’animo di chi legge un senso di soddisfazione spirituale, degno delle esperienze letterarie autentiche e radicali. L’elemento di paragone più prossimo sono, probabilmente, i Demoni di Fëdor Dostoevskij: al centro della narrazione troviamo potenze invincibili, evocate dal sottosuolo, che nel romanzo di Belyj  agitano la Russia pre-rivoluzionaria a partire dal suo cuore rurale. Protagonista del romanzo è il giovane intellettuale Pëtr Dar’jal’ski, avventuriero, aspirante filologo, libertino e gozzovigliatore, uomo di città, prototipo di una nuova classe dirigente ancora acerba e immatura, in rotta con l’arcaismo politico incarnato dallo Zar. Dar’jal’ski è fidanzato con Katja, nipote della baronessa Todrabe-Graaben, esponente della nobiltà decaduta che a Gugolevo, nei pressi di Lichov, cittadina sperduta nell’immensa campagna russa, ha una tenuta. L’amore per Katja è presto ostacolato dall’irruzione di una misteriosa ragazza, Matrëna, serva e musa di Mitrij Kudejarov, grezzo falegname a capo della setta dei “colombi”. Se Katja è l’emblema di una raffinatezza sociale stantia e depressiva, tanto da sembrare una giovane destinata a una non-vita, alla stasi, ad una combinazione matrimoniale dettata dalle convenienze di classe (ed infatti il suo fidanzamento con Pëtr è osteggiato dalla nonna), la sporca Matrëna dal viso butterato, nel suo furore sessuale, nel suo dionisismo istintivo, rappresenta l’apertura entusiastica e inconsapevole al demoniaco, inteso come il tizzone infuocato della Storia, la fiaccola di una rivoluzione presagita da tutti e ormai alle porte.

Ma coloro che sedevano adesso qui non conoscevano la nuova Russia né le sue canzoni né le parole che, al di là dei tigli, agitavano l’anima; i ragazzi, i canti e le parole dei canti risuonavano adesso lontani; i ragazzi intonavano quei canti da lontano; e quelle parole, quei canti mai sarebbero giunti a questo decadente rifugio, mai quei ragazzi sarebbero penetrati in questo giardino; ma era un’illusione; le parole, il canto, i ragazzi erano già qui; da tempo il canto avvelenava quest’aria intrisa di vecchi suoni e faceva spalancare i neri occhi della baronessa; lei lo sapeva da tempo; aveva condannato se stessa e la Russia alla rovina e al sacrificio nella battaglia finale; ma si fingeva adesso muta e sorda, come se non sapesse nulla dei nuovi canti; Pëtr, invece, sapeva.

Dar’jal’ski è presto sedotto da fermenti religiosi lontani dall’ufficialità ortodossa. La seduzione è al contempo religiosa e carnale, eretica e immanente, ineffabile e sensuale: un viluppo inestricabile di estasi e bassezze prosaiche. Slancio estatico che spinge Pëtr nella dimensione del delirio e del sogno ad occhi aperti, tra i chiaroscuri della follia, nei recessi dell’alienazione totale del sé; sensualità vischiosa che abbatte le difese, ammalia i corpi, inchioda il ventre maschile a quello femminile, spinge al concepimento di un figlio battezzato nella luce. Chi sono i “colombi”, e cosa predicano? Quali prodigi intravedono gli infervorati adepti nell’unione, desiderata e ottenuta, tra Pëtr e Matrëna? Cosa accade nella dimora del ricco mugnaio Luka Silyć Eropegin in assenza del padrone di casa? Il romanzo squaderna davanti al lettore una serie di sequenze magistrali, oniriche e materiali insieme, a tratti in piena assonanza con l’iconografia tipica di un Tarkovskij, o di un Sokurov, registi che immergono la propria arte nella cifra espressiva del pittorico.

… era una battaglia tra una bestialità antica e un’assennatezza nuova, ma ancora dalle parvenze inumane; e lui sapeva che, una volta messo il piede sul sentiero di quello scontro, non sarebbe più potuto tornare indietro…

Andrej Belyj accompagna il protagonista, caratterizzato da una camicia di seta rossa via via più lacera, nella sua lenta discesa agli inferi. Raggirato, plagiato, illuso. Lo vediamo, passo dopo passo, scivolare nella fanghiglia dei sospetti (atteggiamento mentale di ogni setta che aspira alla purezza, ad un Assoluto non negoziabile), affogare tra le onde di una crescente scelleratezza, divenire, infine, carne per il sacrificio. Emerge il contrasto insanabile tra il sopra e il sotto, tra l’elevato e l’infimo, polarità opposte che fanno detonare un congegno narrativo caricato a molla: le altezze celesti del divino, invocate in oscure riunioni notturne, contro le tangibili e repellenti descrizioni di isbe infestate da scarafaggi; la mota che incrosta i piedi scalzi dei villani versus i cieli infuocati del tramonto russo, dalla bellezza inenarrabile; l’ardore devozionale, coltivato nell’attesa di un’imminente redenzione delle masse e tramutato in anelito mistico-rivoluzionario, a confronto con le quotidiane occupazioni segnate dalla nera miseria e dai vizi più turpi… L’autore pianta un seme di fuoco che dà i suoi frutti nel superbo, agghiacciante finale. Kudejarov, baciato dalla fede eppure dominato da umani sentimenti, ratifica il fallimento del progetto.

Si, era stato lui a persuaderla, questo era certo; le cose non erano andate come dovevano: senza preghiere, senza senso, senza rito; e se non c’era un rito sacro, questo rivelava dissolutezza in entrambi: lui era malato, sofferente e logorato dal digiuno e dalla tosse: come poteva dedicarsi alle donne? Un tempo le frequentava, ma adesso Matrëna doveva procreare: era solo questa la via da seguire; e lui sapeva chi sarebbe nato e quali sarebbero state le conseguenze: la nascita dello Spirito, l’incolombamento della terra e la liberazione del popolo contadino, ma a condizione che Matrëna si fosse unita a quel signore; e questa circostanza gli era invisa, se il suo cuore traboccava adesso di gelosia…

Il romanzo disegna la Russia di allora: pope rivoluzionari arrestati dalla polizia politica, volantini  inneggianti alla sollevazione popolare, combutte pianificate in bettole di paese, messianismo mischiato a marxismo elementare, spie disseminate ovunque, e all’orizzonte il bolscevismo. I “colombi” sono plasmati dallo scrittore attorno alle caratteristiche del chlystismo, setta storicamente esistita, dedita a pratiche orgiastiche “liberatorie”. Sullo sfondo, l’Oriente contrapposto all’Occidente. Dar’jal’ski resta impigliato nelle ragnatele della Storia mentre cerca la verità su se stesso e sul suo popolo. Il colombo d’argento è un romanzo-testimonianza da leggere e da ricordare.

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Salentino nato "per errore" a Como (anche per ammissione di chi lo conosce), si laurea in Filosofia a Milano, con una tesi sul concetto di guerra umanitaria. Vive a Bari con Mariluna. Adora il Mediterraneo, ama Lecce, Parigi e Roma. Sue passioni, a parte la buona tavola, sono la letteratura, il cinema, il teatro e la musica. Un tempo, troppo lontano, anche la politica. Suo obiettivo è difendere, e diffondere, la pratica della buona lettura. Recensisce i libri meritevoli di essere considerati tali, quelli che diventano Letteratura, con la L maiuscola, e che gli lasciano un segno. Alessandro scrive con regolarità su Zona di Disagio, il blog del poeta e critico Nicola Vacca, collabora con la rivista Satisfiction, anima il blog di economia e di politica Capethicalism, e scrive di serie TV su Stanze di Cinema.

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