Radio Ca’ Foscari ha intervistato Virginia Virilli, autrice de Le ossa del Gabibbo (Feltrinelli, 2013), durante la quarta giornata della manifestazione letteraria MestreInCentro, chiedendole di parlare ancora del suo libro e della malattia in esso raccontata. La personalità dell’autrice è un vulcano di energia che contribuisce a conferire ai ricordi familiari evocati un’aura di grande affetto e vivacità. Davanti a un’attenta cornice di pubblico, Virginia legge passi del proprio romanzo con grande enfasi e partecipazione; risponde alle domande del pubblico con una sensibilità e sicurezza che nasconde la sua giovanissima età; dedica parole d’amore alla sua creatura cartacea e alla storia personale che ne ha permesso la nascita e la diffusione. Un incontro che ha affascinato sia chi è venuto direttamente per sentirla, sia chi si è trovato a passare davanti a Piazzetta Pellicani a Mestre e ha deciso di fermarsi ad ascoltare.
Ecco per voi l’intervista realizzata alla fine della presentazione:
Abbiamo scoperto che hai esordito nel mondo della letteratura con testi teatrali. Nel tuo libro tratti un tema difficile e delicato come quello della malattia. Quanto teatro hai riversato nelle pagine e quanto ne hai eliminato?
La verità è che del teatro mi piacciono i dialoghi e in effetti nel libro ce ne sono tanti. Anzi devo dire che il libro è nato prima come una sorta di tante cellule, di scenette che io ho scritto, molte dei quali avevano dei dialoghi, che poi ho unito attraverso delle parti narrative. Quindi c’è il teatro, se intendiamo un teatro non fatto di monologhi ma di atti e dialoghi. Un teatro più classico insomma.
“Le ossa del Gabibbo” raccontano della metamorfosi di una sofferenza in qualcosa di più leggero. Come se assistessimo alla trasformazione di un veleno in una medicina. Credi che questa capacità sia propria più di una bambina o più di un’adulta?
Mi verrebbe spontaneo dire che è più di una bambina. In realtà quand’ero piccola non riuscivo a fare due più due di quello che vedevo. Immagazzinavo e soffrivo perché vedevo una carenza, una diversità. Solo con l’età adulta sono riuscita a distaccarmene e a renderla impacchettabile e trasmissibile. Io credo che tutto dipenda da quando avviene ciò che vuoi raccontare, credo che la contemporaneità, tra quello che vuoi raccontare e quello che avviene, non è mai garanzia di ottimi risultati. Bisogna lasciar passare del tempo, il distacco rende fattibile l’ironia. In questo preciso caso si tratta più di una maturazione, di prendere in mano i fili e tirarli più consapevolmente. Però c’è anche il rischio che con l’età adulta sopravvengano i tabù e questa potenzialità possa essere esclusa. Diciamo che dipende molto dalla persona in questione. Il mio caso è ben visibile nel libro: con l’età adulta ho saputo riusare tutte le contraddizioni che ho immagazzinato durante la mia crescita.
La tua famiglia, gli amici di tua madre, tuo padre.. come hanno preso, innanzitutto, l’idea di scrivere questo libro e poi anche il risultato finale?
Premetto che i personaggi raccontati non sono riconoscibili. Ho cambiato i nomi e spesso ho fatto confluire in essi due o tre figure contemporaneamente. Tengo molto a questo perché credo che sarebbe stato meno efficace fare altrimenti. Io credo di aver migliorato una base reale attraverso la scrittura, quello che mi è accaduto in famiglia. Mio padre, che è presente nel libro, lo ha letto solo quand’è uscito. Effettivamente, escludendo mia madre, è l’unico personaggio che poteva rivedersi e vivere un’esperienza forte e io temevo tutto ciò. L’ha comprato a Milano. Ha fatto con un Frecciarossa la tratta Milano-Roma immerso nella lettura e poi mi ha mandato un messaggio dicendo che secondo lui avevo scritto un capolavoro. Questa cosa – reputo mio padre una persona molto intelligente – mi ha fatto capire di aver scritto qualcosa di un po’ più ampio, tanto da non pesare su una persona direttamente coinvolta.
La sclerosi multipla è causata da una scarsità di mielina nel sistema nervoso. Parlando di mielina, che fa venire in mente qualcosa di dolce, credi che la malattia possa togliere un po’ di dolcezza anche a una madre? Di conseguenza le persone che le stanno intorno possono anch’esse “ammalarsi” insieme a lei?
Questa metafora miele/mielina è presente nel libro. Da bambina, sentendo sempre ripetere questa parola, mi veniva in mente il miele d’acacia, quello preferito da mio padre. Tutto ciò mi rassicurava senza farmi capire che invece, quello che stava accadendo, era esattamente il contrario. Non credo però che questa malattia in particolare possa togliere dolcezza. Può alterare, in alcuni casi, la personalità ma non togliere dolcezza. Anzi, a me non è mancato niente. Il libro è la testimonianza del fatto che il detto “non tutto il male vien per nuocere” è vero. Magari ti potrà capitare d’intervistare una persona che, avendo a che fare con un malato di sclerosi multipla, ti possa dire “Ah, la prima cosa accaduta è che da dolce è diventato acido”, ma questo non è il mio caso, per fortuna.
A proposito invece della copertina del libro. Da dove nasce l’idea? Si tratta di una tua scelta?
No, non credo che uno scrittore esordiente con una grande casa editrice possa scegliere una copertina e a me non è capitato. All’inizio ci ho un po’ combattuto perché mi aspettavo un altro tipo di cosa, poi però quando ho visto che era stata già scelta ho capito che dovevo farci pace. Alla fine non mi è neanche apparsa così brutta. Ho registrato anche varie reazioni ai vari incontri tra le persone che mi dicevano “Io l’ho comprato per la copertina” oppure “io volevo comprarlo ma la copertina mi ha fermato”. Alla fine la copertina è sempre un terno al lotto e nelle case editrici ci sono persone che ne sanno molto più dell’autore. Io ho fatto due proposte che a posteriori non erano forse adatte: una foto di me bambina mentre saltavo, una foto molto bella tra l’altro, e un’altra molto particolare di una tac che sembrava ritrarre un fantoccio mentre in realtà era un esame diagnostico. Il titolo invece è interamente mio.
Ti chiedo, per concludere questa chiacchierata, cosa ti riserva il futuro. Un romanzo o uno scritto teatrale?
Un nuovo romanzo. Ho capito che ciascuno di noi deve comprendere ciò che sa fare davvero bene e puntare su quello. Siccome questo tipo di scrittura è la cosa che mi ha dato immediate soddisfazioni e unanimi consensi, interpreto tutto come un segnale. Insisterò quindi su questa strada. Penso che tornerò anche ad occuparmi di teatro in futuro ma è un po’ più complessa la macchina in questo momento.
Ecco il podcast di radio Ca’ Foscari per ascoltare l’intervista e l’intero incontro