Senzanome – Alfredo Stoppa

Titolo: Senzanome
Casa Editrice: Euno edizioni
Genere: Romanzo di formazione, romanzo documentale, Romanzo sociale
Pagine: 171
Prezzo: 15 euro

Dare voce a chi non ha un nome ma lo sa dare alle cose, [a] inconsapevoli eroi senza allori, stravaganti santi senza aureola: è intenzione dichiarata, quella di Alfredo Stoppa, che trova spazio in apertura del suo ultimo romanzo edito da Euno edizioni/Siké, Senzanome.

È questo un libro sorretto da memorie filtrate attraverso una narrazione fitta di volti che va a coprire le vicende di un lungo arco di vita del Paese – dalla fine degli anni Sessanta ai primi anni Duemila – viste attraverso lo sguardo accorto, partecipe, appassionato di chi si ritrova ragazzo o poco più a cavallo tra il Maggio Francese e gli Anni di piombo e cresce attraversando – consapevole solo alle volte –  fasi cruciali della storia pubblica italiana.

Il periodo è pieno di fermento, di opportunità, parla di cambiamento: così si nutre di grandi passioni politiche e facili entusiasmi il protagonista, la cui figura di Senzanome è ben delineata fin dalle prime pagine: “Era specializzato in cose inutili, tipo tirar sassi ai polli della nonna, zigzagare in bici, prendere a calci una palla, galoppare su una sedia, travestirsi da chierichetto”.

Questo bimbo, poi ragazzo, di un Nordest che si fa Italia, osserva un mondo piccolo, di spazi minimi, sempre condivisi. Guarda chi frequenta l’osteria, solo maschi di una razza antica, ma non destinata all’estinzione, bevitori di vino scadente che rinchiusi e riparati tra quattro mura in spazi densi di afrori alcoolici e fumo praticano un’altra lingua, un’altra filosofia, un’altra religione, stretti dal forte senso di appartenenza, pronti a rapidi, irridenti colpetti di gomito all’ingresso di un estraneo, che già si sa non essere in grado di  reggere il vino, un cittadino capitato per malasorte nel loro sancta sanctorum.

L’autore traccia netto una vera epica dell’osteria e dei riti contadini: la vendemmia, per esempio, si fa occasione per gli studenti per racimolare denaro da destinare a spese di base, non per scarpe che costano come cento chili di salame, come fa dire ai suoi personaggi marcando un divario culturale e monetizzabile.

Segue un andamento puntuale di cronaca per anni, il narrato di Stoppa: finiscono le convinte utopie del ‘68 e del ‘69, si va all’approdo a un rassegnato disincanto del 1977, il cerchio si chiude con quel due agosto che ferì a morte l’Italia, momento storico cruciale, ultimo evento che travalica la cronaca del solo vissuto personale del protagonista de i Senzanome, in perfetta coerenza con tempi in cui il pubblico era privato e viceversa, in un gioco di confini permeabili.

Non c’è traccia di compiacimento morboso nel recupero di un tempo appena trascorso in Alfredo Stoppa, né di giudizio o rimpianto, né di retorica: ci sono, invece, pagine delicate di amicizia, disillusione, caduta di ideali, rispetto per la saggezza che viene dalla terra di generazioni precedenti e di totale speranza, pura, per quelle future.

Ironica e lieve, la scrittura di Stoppa è attenta al dettaglio rivelatore che apre squarci di tenerezza: le pagine migliori rimangono quelle dei delicati dialoghi del protagonista con i figli a cui insegnerà ad ascoltare le storie che sempre lo rincorrono, e ancora a guardare fuori dai finestrini dei treni, fuori da un’auto in corsa, fuori dalla finestra di casa, oltre.

A parole e a gesti si intravvede un passaggio del testimone, un invito a individuare ideali che vanno coltivati comunque, anche da gregario, nelle retrovie, da Senzanome appunto, che ora adulto sorride della sua cocciuta visione del mondo, non è cambiato nel tempo, ha solo collezionato più cicatrici e meno illusioni, più capelli bianchi e meno ardore.

Un uomo che ha chiaro, ora come allora, dove portare i suoi passi e [le parole], inesorabili, lievi, feroci che sanno di carezze mancate e di amicizia, di Bonimba e Messico e nuvole, di scarpe rotte e Renault 4 e di canti, notti intere di appassionati canti alla vita.

Anna Vallerugo

 

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