OLTRE LA PENNA di… Giovanni Cocco

Il giorno in cui mi sono cimentato per la prima volta con quel testo che, a distanza di mesi, avrebbe preso le sembianze de Il bacio dell’Assunta, avevo due idee chiare nella testa.

La prima era costituita dal desiderio di volermi cimentare con il genere della commedia, per proseguire quell’ideale cammino che, nel corso degli ultimi due anni, mi aveva visto affrontare generi tra loro agli antipodi come il postmodern novel di derivazione anglosassone (La Caduta) e il romanzo di genere (Ombre sul lago).

Ben conscio dei rischi che una tale scommessa poteva comportare (nessuno dei lettori dei miei precedenti lavori troverà in questo romanzo affinità con le cose scritte in precedenza), rimaneva da sciogliere una riserva, specie agli occhi del mio editore: cosa intendevo con il termine commedia?

Un romanzo popolare nel senso più nobile del termine. Qualcosa che fosse in grado di far sorridere senza cedere alle lusinghe del trivio o della risata a crepapelle. Una via di mezzo tra l’umorismo di certi romanzi scritti cinquant’anni fa e la migliore tradizione della commedia brillante. Leggerezza, in una parola. Che sta all’opposto di sciatteria. Come Giovanni Mosca (che ha fatto sorridere gli italiani anche nei momenti più cupi della Storia), per primo, ci ha insegnato.

E quale fosse la misura intermedia tra riso e sorriso, quella sintesi di grazia e delicatezza, la linea maestra che intendevo seguire, stavano a indicarlo alcuni romanzi e film che avevo amato.

Lo Steinbeck di Pian della Tortilla, innanzitutto. I film di Dino Risi, Pietro Germi, Mario Monicelli e Alberto Lattuada. Una linea narrativa tutta italiana che da Giovanni Guareschi arrivava, attraverso Piero Chiara, fino agli esiti più felici della commedia in lingua italiana, con i romanzi di autori come Stefano Benni, Andrea Vitali e Marco Malvaldi.

La seconda idea, invece, andava a integrare lo spunto iniziale. Quale genere di vicenda avrei voluto o dovuto raccontare?

Una vicenda di provincia che risultasse universale e, al tempo stesso, figlia di quell’epica minore da “tempo prima della ferrovia”. Nel caso specifico non avrei potuto non tenere conto da un lato del retroterra culturale narrato, in dieci anni di carriera, da David Van De Sfroos, il più importante cantastorie di quel lembo di terra denominato Tremezzina, il primo a sdoganare in maniera definitiva e credibile l’universo laghèe; e dall’altro della tradizione orale e popolare legata al culto dei santi e della Vergine (Storie del Curato d’Ars e apparizioni mariane). 

Due parole, infine, sul testo.

Dovendo mettere mano a una storia ambientata in Tremezzina, esistevano diverse possibilità per l’ambientazione della vicenda principale.

La scelta è ricaduta su Mezzegra (e non per esempio su Lenno, il paese in cui vivo) per diverse ragioni. Non da ultimo, ed è corretto ribadirlo, la volontà di restituire al paese e ai suoi abitanti quella dimensione di spensieratezza e normalità che i grandi e oscuri fatti occorsi più di sessant’anni fa hanno contribuito a offuscare.

Questo romanzo, quindi, vuole innanzitutto essere un tributo e un omaggio agli abitanti della Tremezzina, una terra generosa popolata da persone semplici e straordinarie.

E mi perdoneranno, i miei venticinque lettori, se per ragioni narrative ho talvolta mescolato finzione e realtà e omesso dettagli anche significativi. Come nel caso del municipio di Mezzegra, che al tempo dei fatti raccontati si trovava ad Azzano e non nell’attuale sede, quella di Palazzo Brentano.

O per la commistione di elementi dialettali tratti dal vernacolo laghèe e da quello brianzolo.

Lo sforzo principale è stato quello di adeguare il tono del libro alla vicenda narrata, proseguendo nella direzione già tracciata dai romanzi precedenti: la leggibilità come criterio, innanzitutto. E le scelte stilistiche (o la mancanza di stile, come obietterà qualcuno) in linea con quanto andavo raccontando.

Nessuna pretesa, quindi. Il puro piacere di raccontare una bella storia.

Con la speranza che questo romanzo, in tempi grami come quello in cui ci è toccato di vivere, possa riuscire laddove la narrativa impegnata solitamente fallisce: accompagnare il lettore fino all’ultima pagina; suscitando, di tanto in tanto, un sorriso.

 

  

Giovanni Cocco è nato a Como nel 1976. Ha pubblicato Angeli a perdere (No Reply, 2004), La Caduta (Nutrimenti, 2013, Premio Selezione Campiello), Ombre sul lago (Guanda, 2013, in coppia con Amneris Magella). I suoi romanzi sono in corso di traduzione nei seguenti Paesi: Stati Uniti, Germania, Francia, Inghilterra, Canada, Australia, Spagna, Olanda, Cina, India, Messico, Cile, Argentina, Sudafrica, Irlanda, Belgio, Polonia, Israele, Albania.

 

 

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