L’ElzeMìro – Fablìole-Bernardina Kibill

NIEces per Fabliole
Da bambina era solo una bambina con un cattivo nome acquisito e una buona fama da acquisire: Bernarda. Babbino e mammina-cari, e mettiamoci anche i nonnini-dipendenti avrebbero ben potuto pensarle e sceglierle un nome meno impegnativo da sopportare, poi, fronte all’aggressività dei bambini alle elementari e poi in prospettiva a quella di maschi standard in futuro avvento. Babbino e mammina, cari, consapevoli tardivi di non aver aggiunto un perplesso Maria-Benedetta o un più generico Giulia a quel primo nome imbarazzante e orfano di fronte al mondo, la iscrissero a scuola con un ornamentale -ina in coda a mitigare il sicuro reprimere la risata di qualsiasi impiegato o impiegata dotati di memoria linguistica: Bernardina; per i lettorini dal lessico meno smaliziato sta per piccola bernarda ovvero piccola vulva. Ma ci si domanda chi chiamerebbe la propria tenera nata Vulvina che sì sa di latino alla lontana ma da vicino no. Vabbè. Bernardina crebbe fino a una certa età inconsapevole. Oggi, abbiamo appreso che si fa chiamare Kibill, dal titolo del film killbill in dove che una frenetica donna samurai tanto fa, tanto dice che finalmente riesce a far fuori il tizio che per pochi, oscuri quanto futili motivi aveva fatto di tutto per assassinarla nel corso di tempo memorabile.

Bernardina si era fatta un amica a quel tempo, al tempo del racconto, un’amica improbabile e fuori misura ma non un qualcuno che le parlasse dal pollice o che si nascondesse in un peluche, una signora di ossa e pelle e di incerta età che viveva in una villetta, uni-famigliare si dice nel ramo immobiliare, molto ai margini della città, di preciso a sedici fermate di autobus dal capolinea ai piedi del condominio dove viveva la bambina. Bernardina, appena le fu permesso uscire di casa da sola, adorò affrontare quel viaggio in autobus e così pieno di pericoli a una prima valutazione infantile. A poco meno di un terzo del percorso il grosso carrozzone si riempiva di adulti apoplettici, obesi, sudati, pieni di punti neri, dal fiato pesante per non dire rivoltante, di mascheroni inquietanti più che facce, insiemi di capelli maltagliati e poco lavati sul collo e zigomoni, labbioni, nasoni rossi e trincee nella pelle del viso e, come si sarebbe scritto in un romanzo d’altri tempi, occhi iniettati di sangue. Tutte persone, o ritenute tali, che durante il non rapido tragitto dal condominio alla casetta isolata di Madame – la sua adulta amica si chiamava così e basta – inquietavano e mica poco Bernardina. Ma il dovere affrontare quelle brutture era inteso come prova di coraggio, non chiedetevi il perché, prima di approdare nel giardino rigoglioso – i fatti si svolgono in primavera estate – della villetta isolata ai margini della città, là dove viveva l’amica Madame. Diversamente da mammina e babbino-cari, Madame, agli occhi di Bernardina era molto bella, portava sempre una parrucca rossa sotto la quale nemmeno una ciocca di capelli veri si indovinava. Perché portasse la parrucca Bernardina non lo capì subito ma era così e pace e amen. Madame anche in casa indossava lussuose scarpe dagli alti tacchi, completi elegantissimi, calze ton su ton e anelli e bracciali e collane da far invidia alle mogli di un sultano. O quasi, non tutte erano pietre preziose, non tutto era oro, ma insomma luccicare luccicava a piacere di chi guardava. Madame con tutta quella chincaglieria addosso e gli abiti eleganti e i tacchi alti tirava l’aspirapolvere e lavava i pavimenti e spolverava i mobili e cucinava; per Bernardina avrebbe fatto delle torte. Lei l’aveva colta spesso in tali faccende affaccendata né mai con indosso un’ombra di zinale, grembio o gonnellino, di sopravveste o spolverino, camice o grembiule a proteggere gli eleganti costumi; Madame prediligeva il tailleur che Bernardina non riusciva a pronunciare se non  taiér o taiùr a seconda.

Madame allora: veniva da un paese lontano, dove si parlava franco, così che storpiava non poco la lingua di Bernardina, e il perché era arrivata in quella città non si sa davvero ma indagare il motivo di superficie è facile: si era sposata a un ricco uomo d’affari o meglio a un gioielliere che le permetteva l’indispensabilità del superfluo. L’uomo, Bernardina non lo vedeva né lo vide mai, nemmeno in fotografia, e Madame le diceva che per forza, lui viaggiava molto anzi era sempre in viaggio di modo che anche lei lo vedeva poco, di rado, a memoria, per niente. Per il resto resto Madame era pittrice che dipingeva e faceva mostre e vendeva la sue opere, guadagnava. Nel giardino della villetta un gran capanno dalle grandi finestre era il di lei studio di pittura. Questo il motivo per cui Bernardina si appassionò tanto di Madame: prima che dei suoi quadri, grandissimi e piuttosto impressionanti, bè fu subito alla prima visita catturata, sedotta dall’odore di olio di lino, trementina e altre chimiche da pittura e dai colori nei loro grossi e grassi tubi di metallo, tutti stortignaccolàti dall’uso. Tre nomi avvinsero la fantasia di Bernardina: indaco, blu di prussia e vermiglione. Poi nero. La pittura fu il motivo per cui madama e la bambina divennero amiche; è che Madame era stata invitata alla scuola elementare per fare un laboratorio, termine che nelle scuole vuol significare alcune ore semplicemente non passate a ripassare le battaglie di Cesare i canti per la pace dei poeti africani – nonchè spesso ex presidenti di repubbliche presto intocciate nel sangue – e il presente congiuntivo che però però però. Madame aveva accettato l’incarico un po’ di malavoglia; subito tuttavia si era accorta di Bernardina e che aveva un dono, ma mica glielo aveva detto né le aveva specificato di che dono si trattasse. L’aveva detto alle maestra senza suscitare altro affetto che il fastidio – noi siamo in prima linea qui tutti i giorni… e questa arriva e ci spiega… fa… tanto vuole… come se i bambini non stessero già tutti nei manuali di pedagogia –; e ai babbini-cari con un effetto simile – è nostra figlia sappiamo noi –. Ma nei giorni seguenti la fine del laboratorio e col dovuto accordo scritto e siglato dei babbini-cari, che però non obiettarono, Bernardina fu ammessa a casa, anzi all’atelier di Madame.

Dipingere. Madame era l’unica cosa che faceva senza taièer, taiùr, tailleur ma in larghissimi pantaloni grigi, scarponi anti-infortunio e una gabbana grigia abbottonata fino al collo. La parrucca era l’unica parte di Madame che non fosse macchiata di colore. Bernardina non crediate, non dovette far altro fin dal primo giorno che sedersi a un tavolino con un foglio di carta, anzi più fogli davanti e una scatola di cartone grigio piena di pastelli all’olio,  strausàti ma luccicanti e meravigliosi. Lei stava lì e poteva scegliere tra disegnare e fare quello che le pareva, guardare Madame, aiutarla ogni tanto a pulire i pennelli, dirle se un colore le piaceva più di un altro o no, ma ascoltarla soprattutto. Madame raccontava storie meravigliose, anche personali ma non delle sue origini, non del suo paese di nascita ma molto del suo paese adottivo di cui ogni tanto cantava una canzone o metteva un disco. Del marito poco, pochissimo, meno. Madame possedeva un apparecchio chiamato giradischi perché in effetti sul suo piatto vi giravano dei dischi di una certa plastica nera percorsa giro giro da sottilissimi solchi. Un braccetto con una puntina sottilissima in testa correva poggiato in quei solchi e, com’è come non è, da lì in qualche misteriosa maniera arrivavano dei suoni magnifici, fossero canzonette o, come diceva Madame mazurche di sciopèn. Le mazurche si potevano ballare e questo era un divertimento per Bernardina, far giravolte nello studio con Madame. Altro non succedeva. Madame non diceva mai che un disegno di Bernardina era brutto se era brutto. Taceva, e Bernardina dal silenzio indovinava; oppure la invogliava a rifarlo, uguale ma, sei sicura di questo marrone… perché cerchi di imitare le cose, è la cosa più difficile… per ora inventale… ci sono cose che stanno fuori di noi  che copiare è difficile… anzi impossibile… e cose che stanno dentro di noi che vediamo male… rifarle è difficile uguale… per il male che ci hanno fatto a volte… ma l’approssimazione porta pian piano a definire la sensazione… Qui Madame sfumava questo e altri discorsi simili. E Bernardina ascoltava e inghiottiva le parole come fossero un gelato. Ma portare a casa i disegni che faceva da Madame, hmmm da principio no. Bernardina si fece al volo persuasa che se non si fosse trattato di casette marroni, appunto, in mezzo a prati verdi sotto cieli azzurri, babbini-cari avrebbero smesso di lasciarla andare da Madame. Poi, siccome aveva sviluppato col tempo, in quel tempo, quella malizia utile ai bambini per addomesticare i genitori e tenerli a cuccia, per non dire alla catena, casomai, Bernardina ogni tanto li gratificava con un disegno di quel tipo e poi, siccome aveva preso a cercare di copiare certe pitture da certi libri di Madame, col tempo ecco che ogni tanto arrivava in casa con una copia di un paesaggio, molto approssimativa ma rassicurante, o di certe illustrazioni botaniche o naturalistiche antiche o di certi Monet, o Degas o Renoir. Pasticci che però davano ai babbini-cari la sensazione che dopotutto Bernardina aveva un dono; una copia di un uccello del paradiso fece loro esclamare però, Ma l’hai fatto tu…impossibile…va là che sei bugiarda… ti ha aiutato la Madame. Intesa con affetto educativo fu un’offesa che Bernardina prese per tale e, se lo volete sapere, Bernardina tuttora che è una personcina grande e che come vedremo fa la sua vita, non ha perdonato ai babbini-cari. Ci sono cose che feriscono i bambini più di ogni altra si possa loro fare di malvagio: la condiscendenza che nega e sopprime. È una coltellata data con sorridente noncuranza. Di fatto è come il calcio al gattino per la strada. Di calci al gattino per strada anche Madame si capiva che ne aveva presi. Le opere di lei erano piene di bocche che urlavano, di corpi scomposti, di occhi sbarraccati su un orrore che sembrava arrivare di qua dalla tela, visto dalla tela che, come gli animali sul tavolo del vivisettore, inerme poteva solo indicarlo, farlo intuire e solo a chi fosse abbastanza dotato di sensibilità per ravvisare o travisare di che si trattasse. C’era una mistero intorno alla testa di Madame ed era, quadri urlanti a parte, la parrucca.

In un pomeriggio più caldo dei soliti pomeriggi verso la fine dell’anno scolastico, mentre Bernardina con la punta della lingua fuori dalle labbra strizzate cercava di spremersi sulla grande jatte di Seurat, Madame di colpo cacciò un urlo – fatto inusuale, Madame sussurava per solito –, afferrò la parrucca, vien da dire per i capelli, se la levò e la gettò alla selvaggia. Si vide così che di suoi, capelli non ne aveva, il cranio era un superficie, liscia, lustra, bianca da parere candeggiata, perfetta fino al disumano. Ecco qua carina… È stato mio marito se vuoi saperlo… Era medico prima di diventare un rinomato gioielliere… Ma… Medico in un posto particolare dove per un certo tempo mi trovai prigioniera… Lo sposai in quella condizione… Per salvarmi la pelle benché le sue… Cure diceva… Mi avessero fatto cadere tutti capelli e non solo… Cose che è inutile raccontare… Offese che non si possono perdonare… L’hai mai visto per casa… No… Ti ho detto che è sempre in viaggio… È così… Non so se il viaggio è finito… Sicuro che da dove è andato non torna… Vedi quel trave ( Madame indicò la capriata che reggeva il tetto del capanno)…È lì che finalmente l’ho impiccato… Nessuno lo ha mai scoperto ma è bene che tu sappia… Capirai perché ma non subito… potresti denunciarmi sai cosa vuol dire ma non lo farai. Bernardina apprese questa mezza verità con stupore e comprensione. Lei faceva il tifo per Madame, a prescindere.

Questa storia rischia  di essere lunga e complicata ed è ora di finirla. Bernardina non disse mai niente in casa; nessuna polizia venne mai a sapere nulla. Bernardina piano piano divenne bravissima nel copiare ma poi con il tempo nel fare a modo suo. Diventò una vera pittrice, nome d’arte Kibill. I babbini-cari gradirono le rimesse in denaro che ogni tanto arrivavano da parte di Bernardina. Madame scomparve e solo Bernardina sa dov’è: nel suo cuore.

 

Schermata 2017-05-09 alle 10.56.35In apertura Nieces di Zoey Frank

Pasquale D'Ascola

Pasquale Edgardo Giuseppe D'Ascola, già insegnante al Conservatorio di Milàno della materia teatrale che in sé pare segnali l’impermanente, alla sorda anagrafe lombarda ei fu, piccino, come di stringhe e cravatta in carcere, privato dell’apostrofo (e non di rado lo chiamano accento); col tempo di questa privazione egli ha fatto radice e desinenza della propria forzata quanto desiderata eteronimìa; avere troppe origini per adattarsi a una sola è un dato, un vezzo non si escluda un male, si assomiglia a chi alla fine, più che a Racine a un Déraciné, sradicato; l’aggettivo è dolente ma non abbastanza da impedire il ritrovarsi del soggetto a suo Bell’agio proprio ‘tra monti sorgenti dall’acque ed elevate al cielo cime ineguali’, là dove non nacque Venere ma Ei fu Manzoni. Macari a motivo di ciò o, alla Cioran, con la tentazione di esistere, egli scrive; per dirla alla lombarda l’è chel lì.

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