A tu per tu con…Enrico Franceschini

In questi giorni la crisi mediorientale è sempre molto grave e venti di guerra tornano a soffiare sulla Terra Santa. C’è un romanzo ambientato nel 2000, in un periodo in cui si è davvero sfiorato uno storico accordo di pace, che oggi sembra lontanissimo. E’ “L’uomo della città vecchia”, edito da Feltrinelli e scritto da Enrico Franceschini, cronista per “La Repubblica” prima dalla Russia e ora da Gerusalemme, che è stato testimone di quell’epoca straordinaria.

La prima domanda appare scontata, ma inevitabile: lo fanno in molti, ma lei come è passato da giornalista a scrittore?

Beh, si dice che ogni giornalista abbia almeno un romanzo nel cassetto e io ormai sono arrivato al… In alcuni di essi vi è un personaggio che fa il giornalista. Hemingway diceva che il giornalismo è una buona preparazione per fare lo scrittore, a condizione di smettere presto perché può diventare un vizio. Per quanto mi riguarda, per descrivere i due modi diversi di intendere la scrittura uso una metafora politicamente scorretta. Il giornalismo è come la moglie: lavori a occhi chiusi, non hai bisogno di parlarti e ti capisci al volo. Il romanzo è come l’amante: alla sera torni dal lavoro, stanco morto, ma se ti chiama esci di casa e rinascono nuove energie e fantasie creative. Il giornalismo è il lavoro che io amo, mentre il romanzo è la passione.

In questo libro si è spinto ad intrecciare mistero, politica e religione. Quali sono le caratteristiche di questa vicenda?

In precedenza avevo scritto un altro thriller ambientato in Russia, sempre giocato sui piani della realtà, in modo da lasciare nel lettore il dubbio su quale sia il punto in cui inizia a trasformarsi in fantasia. Gerusalemme era il posto giusto per farlo, oltre che essere la città in cui svolgo il mio lavoro di cronista, perché è intrisa di miti o credenze. La fede stessa si presta a questo doppio binario: la resurrezione è un fatto reale o no? Su questa domanda si gioca la religione cattolica. Si dice poi che sotto ogni casa di Gerusalemme sia sepolto un mistero: scavando si possono trovare gioielli, monete, ossa… Nel romanzo viene ritrovato un corpo vecchio di duemila anni che scatena tutte le congetture .

Parlando di Gerusalemme è d’obbligo chiedere come vede lei questa città martoriata.

Innanzitutto è bene chiarire che Gerusalemme è chiamata la Città Santa dell’amore e della pace, ma purtroppo è la città dell’odio e della violenza, della divisione tra arabi ed ebrei, ma anche fra ebrei laici e religiosi. Un esempio di questa situazione paradossale a cui ho assistito di persona avviene quando si ricordano le vittime dell’olocausto. Viene suonata una lugubre sirena e tutti si devono fermare e stare in silenzio, persino se si è in autostrada bisogna fermarsi e scendere . Gli unici che non si fermano sono gli ebrei ortodossi: continuano a camminare perché non riconoscono lo stato laico con le sue festività. Così si vedono scene di risse tra ebrei laici, magari figli di vittime dell’olocausto ed ebrei ultra-ortodossi. Un altro esempio è che le varie confessioni hanno un proprio angolo nella chiesa del Santo Sepolcro, ma litigano in continuazione e la violenza è tale che colui che apre e chiude la chiesa è un musulmano e tramanda il mestiere di padre in figlio… D’altra parte vi sono anche divisioni tra i musulmani sunniti e sciiti. Il Papa chiama alla pace, ma quando qualcuno soffia sul fuoco finisce per rendersi necessario un intervento. Secondo me, se avverrà, sarà un flash di bombardamenti con vittime civili seguito da un conflitto che andrà avanti ancora molto tempo. Bisogna però essere ottimisti: la primavera araba è comunque un bene e prima o poi se ne vedranno i frutti. D’altro canto da una terra governata per decenni da tiranni tenuti in piedi dall’occidente era impensabile un passaggio immediato alla democrazia.

Lei che conosce bene la Russia, come giudica la scelta di Putin?

Putin rappresenta il nazionalismo e il riscatto da un’umiliazione di un impero distrutto che si sentiva forte. Non mi piace la posizione che ha preso, d’altra parte i Russi si dividono da sempre in slavofili e occidentalisti. Pietro il Grande, ad esempio, faceva parte della prima categoria, ma altri zar e leader comunisti si sono sempre sentiti diversi. In realtà a mio parere hanno elementi per sentirsi più Europei che Asiatici, ma anche in questo caso ci vorrà molto tempo perché si affermi questa linea.

Nel suo romanzo per l’appunto si parla di un’epoca in cui la pace sembrava vicina. Come mai questa scelta?

Io mi trovavo lì come corrispondente all’epoca e fu un momento straordinario: ci fu il negoziato con Bill Clinton e sembrava che la pace fosse imminente, dopodiché esplose di nuovo tutto: l’attentato delle Torri gemelle, la guerra in Afghanistan e poi in Iraq. Era un momento di grande speranza in cui si arrivò ad un passo da uno storico accordo e mi piaceva l’idea di inserirlo nella fantasia narrativa: le cose potevano essere diverse.

Quali sono i temi del romanzo?

Innanzitutto la fede. Tutto ruota attorno a questo corpo che viene ritrovato, che sembra confutare la resurrezione. San Paolo diceva “Senza resurrezione non c’è cristianesimo” e questa concezione si confronta con altre opinioni: nel romanzo alcuni personaggi affermano che il cristianesimo è un codice di valori morali. Un altro tema è il tradimento: quello evangelico di Giuda necessario per la resurrezione, poi il tradimento di gioventù del giornalista nei confronti del compagno di studi, un terrorista che diventa un frate e infine il tradimento non voluto del frate verso questo corpo, senza il quale la vicenda non potrebbe sciogliersi. Vi è anche una donna, un’agente israeliana laica, che crede nel proprio paese, nel sionismo, nella democrazia laica e forte.

Si descriva come scrittore.

Per scrivere bisogna amare la lettura e io ho letto tantissimo e ho subito il fascino dei grandi maestri: sono partito trent’anni fa per gli Stati Uniti come free lance, ispirato da romanzi di Henry Miller e Charles Bukowski. Con quest’ultimo ho anche avuto un incontro che è descritto nell’introduzione al suo libro “Shakespeare non l’ha mai fatto”. Dopo varie ricerche fortunose trovai casa sua, bussai e mi trovai a passare due ore con lui a bere birra. Ora sto leggendo “La giovenca malata di nostalgia” di Isaac Singer. Lui evidenzia tre pericoli per gli scrittori: voler dare un messaggio politico o sociologico, inseguire la fama rapida e innamorarsi dell’originalità a tutti i costi. Stando sul primo punto cito anche un vecchio detto di Jack Warner, produttore hollywoodiano: “Se vuoi mandare un messaggio spedisci un telegramma”. Nel libro il messaggio sarà poi dentro, bisogna partire dalle storie, dalla narrazione pura.

Milanese di nascita, ha vissuto nel Varesotto per poi trasferirsi a Domodossola. Insegnante di lettura e scrittura non smette mai di studiare i classici, ma ama farsi sorprendere da libri e autori sempre nuovi.

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