L’elzeMìro – Idillio Toscano-La bimba che mangiava le rose 1a

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                                                   Bouquet dal vivaio Cascina Bollate – Carcere di Bollate – https://www.cascinabollate.or

                         Premio Letterario Internazionale Indipendente 2018 – poesia inedita – Primo premio 

                         Idillio toscano – La bimba che mangiava le rose   

                                                       un Mémólogo

per Delfo Menicucci

Note dell’autore

Uno spazio vuoto di tutto, e si evitino con cura scenografie e per l’amordiddio niente costumi a chi canta o che dice. Evitare il troppo e gli abiti da sera. Le donne abbiamo un abito semplice di un colore che piace ma si evitino gli accostamenti. Una sorta di uniforme. Niente tacchi please e abiti sghembi. L’orchestra, se c’è, sia vestita di scuro. Se c’è il pianista, giacca e cravatta. Niente coreane o dolce vita o frivolezze contemporanee. Rigore. 

Il cantore, non voglio chiamarlo attore che è fuorviante, uomo o donna che sia lavori a memoria. Lo stile sia quello del Conto; col rispetto dovuto si pensi a Pinocchio, a Perrault, a Basile. E sovra ogni cosa si tenga a mente nel dire il libretto dell’opera italiana. Se non si vuole far riferimento ai grandi almeno ai grandi piccini, come Sterbini. Senza bamboleggiamenti ma badando molto bene al ritmo, che c’è di suo e che non ha da essere trascurato anche dovesse non coincidere, e succede, con il cosiddetto che cosa vuol dire. Non si tenti per niente di annacquarlo in termini di giornalismo, ovvero di significati. Si ascolti la musica che dal testo vuol sortire. Quindi l’attore apra le orecchie. Non si abbia paura di sottolineare, dove ci sono, assonanze o rime, o blande allitterazioni. Per carità tenersi lontani dallo stile da sceneggiato televisivo che non è nemmeno uno stile, ma il negativo del recitare. La cui consistenza è quella di fingere senza darlo a vedere. L’attore non cerchi di appianare le contraddizioni. Prima  quella di una scrittura contraria. 

Nell’esecuzione si metta gran cura  nel far sì che i passaggi dalla parola al canto siano precisi, senza tempi d’attesa per la nota o per l’attacco, salvo siano voluti e trovati. Tutto dovrà essere un flusso di parole e di note. Un melòlogo, in equilibrio tuttavia tra due ascolti differenti ma non così tanto.

Ebbene a questo punto sul vuoto entri l’orchestra o il pianista o chi sarà. Pari avanti mezza.

PASQUALE. E.G. D’ASCOLA

 

1.

Il cantore. Rose rose rose rosa, roselle arrossite e gialle e ingiallite, rose rugose e levigate, arrostite talvolte dal sole, rosalpine svagate, balsamine e moscate, rose dal calore di sangue, la parte ovvia e inquietante della bellezza, rose candide iceberg, vi dico signore e signori, udite sentite la storia, non confetto né rosa, ma ad orecchio, a non difettarne parecchio. 

Strumentale pp indi sf.

Dai fiorai osservatele, déraciné, puntute, pungenti le rose ai domiciliari benché, faccian giardino di sé, così, solo a vederle le rose, per natura tutte guardarmi-e-e-ehi-non-toccarmi. Osservatele rampicarsi su pe’ tralci più alti, corone di rose ora bianche ora arancioni sul verde metallo, e non fa nulla che sia scuro di ruggine o zincato brillante o di còrten l’acciaio rugginoso alla moda; esse vincono sempre, belle come la bimba dal viso ovalino, opalino, immaginate signore e signori non una rosa, stucca alla lunga l’eccesso di paragoni con le tre signorine Esperìdis, le greche, le belle nel loro giardino, che escono solo la sera; non una rosa dunque diciamo ma una piccola ortensia, una bambina allocchìno dagli occhi d’alabastro incantato, collino, nasino a modino, tutto qui; lo charme di un’età che non seduce ma incanta. Permettendomi il tempo lor signore e signori, ne conterei la storiella, amena, un quadretto, poca roba, una storiella-sonata per fiori e viola da bimba. La bimba fa un gioco che ama, compone a memoria filastrocche in giardino, giochi di rime, di metri, cosette che…

Prendi questa rosa, nel nome chissà

o di chi, che non c’è, che non c’è,

non ce n’è, nomi macché, non si sa

da temere, fuggire, oh poi ma perché…

recita a caso tra sé, 44 sillabe abbì-abbè; la bimba trimpella tra i fiori, di rose ne sceglie ora questa ora quella ma ancora non osa; vedremo più avanti che cosa. 

Strumentale c.s.

Bene facciamoci un quadro della situazione, l’uomo alto da immaginare sul fondo, del quadro, vedete, provate, insistete a rappresentarlo, l’uomo là col cappello in capo di paglia, il cappello non il capo; è il giardiniere, e l’allocchino alabastro, la bimba, è sua figlia. A lei le parole e i colori sono già cari, i suoi spaesati balocchi, questo si noti per bene…

Là per donde le onde si fanno,

ora fanno danno, ora affanno.

Qui novenari umìli, piccini,

cércan ripari là sotto ai pini.

Sì, dieci per dieci fa cento,

Ma quel che conta, l’accento…

Così arriva ogni sera la sera per lei ma poi, ma poi la mattina. La ruota del tempo induce trepidi dubbi sul fondo stradale. 

Strumentale c.s.

È giustificata dall’età e dal nón dovér fàre fatica la bimba, ch’ il suo babbo una sola vuole ne faccia; ché, già che c’è, che sta qui nel paese di qua, a furia di libri succosi e cibo che sappia di che, d’aria d’acqua, di sole e di nebbia, alta e svelta si faccia, ché a scuola per ore e ore e ore si sa, la maestra, Santa di nome cognome Rescìgna, le grida di qui la gira e rigira di là chiusa a chiuderle in testa di quelle cose bizzarre – ma un metro, perché dovrebbe essere o più lungo o più corto del medesimo stesso, le frazioni, è facile fare in quattro le schiacce ma in cinque ma in sette senza coltello come si farebbe, gli angoli ora gli acuti, ora gli ottusi che sono si sa per lo più la maggioranza – tutti dei bei così-è, fabbricati con la riga e la squadra sul piano di quaderni ordinati da un’ordinatrice, la strega stentata uscita ora adesso dalla premiata officina maestre, incipriata nasuta che spande dall’alto nel basso qua giù un catechismo continuo di regole e rìgoli sempre gli stessi e di nuovi a migliaia, le càbale di un’aritmetica senz’ossa né corpo, la proporzione della dismisura. Della classe la bimba però, lei sola sa usare la grammatica a modo, oh quanto le piace l’ometto di Barga, e sa scrivere oh belli, ariosi temini, svolanti; come fa non lo sa, ma riesce, e nessuno osa dirle, Oh mamma mà mà, tanta è la perizia che lei usa nel tenere al guinzaglio discorsi diretti e indiretti, paratassi e ipotassi, qualche volta epistassi e tutti i tassi congiunti di congiuntivi, comparati ai più miti condizionali; quelle cose lì che maneggia con cura chi scrivere sa, le arrivano in punta di pennino così come al babbo, lei n’é convinta, nascono i fiori dalle sue mani da Polifèmo, lei crede, isole mani di creta, mani d’Omèro, eocèniche, oceaniche mani segnate di segni, così le pare, anzi n’è sicura, gli stessi della pietra paesìna. 

Strumentale c.s.

Quando la bimba non sa seguitare con le parole ecco, disegna a suo modo fili d’erba, li copia con cura, gli insetti e i fiori che l’amano, a vedere da come fiorenti dal foglio a colori, osservano quanto lei ama i suoi fiori. Altre cose la bimba non crede che al mondo vi siano da vedere e godere, le piante e, ma in misura minore, i gatti, gli uccelli e le coccinelle, qualche volta le stelle, come le signorine Esperìdis simpatiche e altère; si capisce che stanno in un mondo lontano, ed escono solo la sera. E li disegna benissimo anche quelli, stessero fermi un pochinino, non fosse che la maestra non crede ai suoi occhi, non crede che l’arte sia la parte di cui s’impara la parte e poi ci si mette da parte, quella crede che tutto sia l’applicazione di solerti istruzioni, di tecniche miste, d’etichette d’un programma fittizio, d’un negozio precotto, non di quei grilli che abitano teste e cervelli ma non s-cervellati da non dar ordini al caos. L’hai fatto tu l’hai fatto… ma è impossibile tu l’abbia fatto te, schiocca ogni volta la voce d’ossa seccate della maestra, cobra dagli occhiali smagriti; e si vendica un poco la Rescigna a ripetere saltando ora qua ora là tra, tabelline, tabelle, tavelle, tabellari, cordìcoli e codicìlli, una perpètua colpita su una via secondaria da un bel raggio ragioniere che si spezza ma non si spiega come mai una bimba sappia scrivere così meglio di lei e senza sbagliare, i nomi dei fiori persino, in latino a volere, Acanthus si scrive con l’acca, ah flos florum pulchèrrimus. Per forza i’ mmi’ babbo li fa, risponde la bimba opalina alla Santa Rescigna e ancora bene non sa che a replicare così, alla via tra il franco e il cortese, nel mondo lassù dominato da un serpente di oltre un metro e cinquanta, si chiama però impertinenza; Ah bàcca bacata, le dice l’arcigna Rescigna, Ah sventurata rispondi… è dio a dire alle cose se s’hanno da fare… per sì o per no… ogni cosa… anche i fiori e tutto il più bello… è il padrone di tutto, la rimbecca Rescigna, la Santa, prestando il poeta del duplice lago ai suoi scopi; No no sono sicura signorina maestra – la maestra è una variante nubile dunque dell’immobile donna Prassède – risponde innocenta la bimba ed impavida e su questo è precisa, È il babbo a chiamarli su dalla terra… il cielo c’entra solo se piove… non si sa quando e se vuole, spiega come fosse un ciuco testardo alla Santa maestra che insiste, Ah luterana ah eretica noce ah dissimulata pagana. Ma a dispetto degli ah, ribatte, ribadisce e rispiega paziente la bimba dove i fiori stanno nascosti, e chi li fa germinare laggiù, sempre lui, il gran giardiniere che è il suo babbo, altro e tutt’altro che un dio, né buono, né amoroso, molto meglio, forse un artista operoso, attento e, lo dicono spesso i cantori, tenace nella sventura d’essere vivo… 

È la terra un grande lago

dove nuotano le cose

puoi pescarne belle rose

se ti tuffi con un mago…

Quattro per otto trentadue abbabà, conclude. E su questo la Santa Rescigna si aggiusta gli occhiali sudati e conclude anche lei scrivendo una nota furente, ove in tralìce tralùce il potere che nuoce, cuoce talvolta, comunque mai scuoce, direbbe la bimba. E amen.

                                                                                                       

                                                                           Fine della prima parte

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Scrive il prof. Alberto Asero in Orizzonte Atlantico https://www.orizzonteatlantico.it/ : «Vorrei sottolineare, di questo squisito Idillio toscano con fiori, una ben misurata, e affatto ingenuamente ottimista, poetica dell’intuizione, di cui la bambina è incarnazione più che consapevole e che si oppone a una sorta di presbiopia universale. (…) Cuspide di questa poetica è però senz’altro un geniale slittamento esistenziale: si noti infatti che, in  senso stretto, ciò che D’Ascola fa non è ritrarre la bambina  nell’idillio campestre, bensì, al contrario, ridurre il campo a momento  dell’idillio infantile (naturalismo arcaico, dunque, non post-intellettuale). Idilliaco non è dunque il campo, non sono i fiori, bensì proprio la bambina, che è campo e fiori, pura emergenza umana, e per ciò stesso realtà transpersonale che resiste a ogni diaspora pseudo-umanizzante. »

 

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Pasquale D'Ascola

Pasquale Edgardo Giuseppe D'Ascola, già insegnante al Conservatorio di Milàno della materia teatrale che in sé pare segnali l’impermanente, alla sorda anagrafe lombarda ei fu, piccino, come di stringhe e cravatta in carcere, privato dell’apostrofo (e non di rado lo chiamano accento); col tempo di questa privazione egli ha fatto radice e desinenza della propria forzata quanto desiderata eteronimìa; avere troppe origini per adattarsi a una sola è un dato, un vezzo non si escluda un male, si assomiglia a chi alla fine, più che a Racine a un Déraciné, sradicato; l’aggettivo è dolente ma non abbastanza da impedire il ritrovarsi del soggetto a suo Bell’agio proprio ‘tra monti sorgenti dall’acque ed elevate al cielo cime ineguali’, là dove non nacque Venere ma Ei fu Manzoni. Macari a motivo di ciò o, alla Cioran, con la tentazione di esistere, egli scrive; per dirla alla lombarda l’è chel lì.

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