L’ElzeMìro – Mille+infinito- L’anima di tutte le cose : il coltellino di papà

non so quanti, ma pochi non credo e, tra questi pochi di sicuro quelli che sono stati in giappone, o da turisti o da curiosi (del turista si badi però che l’unico scopo è comprare l’esotico e l’usuale mangiare) non credo pochi, sanno che è opinione nel popolo di quell’arcipelago che ogni cosa abbia un’anima, questa almeno la notizia diffusa e voglio farvi sorridere dicendo che di recente forse per anima s’intenda l’anime. non voglio e non penso nemmeno di uscire troppo dal seminato ; aggiungo, a prescindere da quello che si voglia immaginare pensino i gatti in merito, è merito umano proiettare sopra ogni cosa, il che vuol dire appunto nella cosa, il proprio desiderio. ci tengo consideriate qui il desiderio al singolare, la lust, non saprei dire se quella di lacan – il tipo che incartandosi nel fumo mi pare pretese di tradurre in una lingua da bavardage la tiefe der weise, la profondità del saggio, tedesca – la lust che alla fine è um ein endlich nicht erreichtes, qualcosa che alla fine è una magamerlina e pouff ; e con cui tanto bene c’incanta rilke dalla lapide della sua tomba a raron-svizzera, la lust niemandes schlaf zu sein, il desiderio d’essere di nessuno il sonno. quella di un’anima in ogni cosa è, ne converrete, una gran bella pretesa del particulare, esclusivo e occlusivo che vuole solo negli umani quell’imponderabile essenza, quell’etere, chissà se ne avete trovato una migliore definizione, che nel particulare alloggerebbe al concepimento e dal particulare sloggerebbe per rendersi all’universale con la morte ; no comment. la disillusione che mi porto dietro come forma inconfondibile di me medesimo mi pare mi autorizzi a dire qui a quanti invece tra voi si coccolano con le illusioni che, quando parlate di anima, a mio modo di vedere, usate il modo indicativo al tempo superstizioso ; indicativo ; mi è capitato giorni fa  di cogliere un fiore in bocca a uno scolaro fermo con il babbo a una cassa della coop grande di empoli, che bello non vedo l’ora che è natale. absit iniuria verbis ché l’iniuria se mai è di quello scolaro. ma a firenze, per quanto empoli, nato e vissuto a firenze io, che-è-natale è un hd, horribile dictu. va da sé che ho evitato di bacchettare e ragazzino e babbo, stante che oggi non si può sapere che cosa uno ricorda di scuole mal fatte e che cosa un ragazzino apprende in scuole malconcepite, diciamo disadorne di, anima. per quanto di immacolata concezione. in ogni modo se già è un’opra senza nome tentare di correggere i propri simili e vicini, è un’impresa a bbischero con chi non conosciamo né vedremo più di qualche istante fugace. oltretutto tacendo c’è da credere che possiamo evitare non solo la coltellata, in quanto prosecuzione con altri mezzi del vaffanculo, ma anche il giudizio di arroganti che il soggetto sfanculante potrebbe appiccicarci. colgo quasi per caso, l’opportunità che questa frase mi offre per raccontare una cosetta, una bischerata per l’appunto, della mia di infanzia e che riguarda il natale dal punto di vista del calendario o, se quelli tra voi più pii preferiscono, il natale maiuscolo. e riguarda indirettamente le coltellate. che con il nannatale possono casomai stare sotto la comune copertura del racconto, quando non di orrore brutale, di mistero che tutto avvolge nella cappa del nonsenso ; qui il mio raccontare si farà magari pensieroso. e breve ché, un po’ per naturale ritrosia – di raccontare i fatti miei e passati – e altrettanto naturale mancanza di attitudine al memoire da magistrati in pensione e infine, credo di dover dire per poca pratica e poca grammatica, non so mica bene come arrivare in fondo a questo gioco di cui mi rendo conto di stare sempre sul punto di dare la prima mossa senza capire come fare la seguente. per cui cincischio. ora voi lettori, quanti siete dimando, un centinaio o meno, ancora meno, direte se già non lo dite, ihhhccheppalle ; e che gioco con le parole e che dribblo la storia ovverosia quello che vi interessa ; e dove ho messo poi l’intrigo e l’intrico e magari la psicologia del personaggio. allora mi scuso ma lo devo dire once and for all : ho la psiche di un elianto, girasole o topinambur, che dove va il sole gira, simile ma più radicale di altre piante nel comportamento ; avrei,  a volere, la mentalità  del gatto che dove c’è una coperta ci si piazza e sonnecchia. nessuno si è mai curato di scrutare la psicologia di un girasole, dei gatti sì tra coloro che al gatto attribuiscono doni e doti divine e via discorrendo. a questo punto, chiunque di voi, di voi ascoltatori, dirà che altro non sono che chiacchiere queste. e inconsistenti su un tema di totale inconsistenza quale è senz’alto questo. storia di un coltellino. un coltellino smarrito. e anticipo, non ritrovato. peraltro. mi ha incuriosito il motivo per cui ricordo questo episodio da quando avvenne nella mia infanzia, intorno non so ma agli otto anni credo, ad oggi che di anni ne ho una valigia piena e con qualche probabilità prossima a svuotarsi. lo ricordo e non so perché. ma, come fanno quei farmaci – phàrmakon/ka =veleno – la cui emivita è lunga e tale che il loro effetto va ben oltre terminata la loro assunzione, così la memoria, la mia in special modo, tiene in corpo il veleno del ricordo, ora del più brutto, ora del più insulso, qualche rara volta di quello lieto. chi abbia subito un’anestesia, la cosiddetta sedazione profonda, sa quanto perduri, la sensazione di schiacciare un interminabile pisolino, dopo, a dispetto del fatto che gli occhi vedano ma come circondati da un sonno. su questa scia  faccio un’altra premessa ; circa mio padre. se io sono l’io narrante, lui è l’io narrato di questa breve esposizione. mio padre, i’ mi’ babbo di noi fiorentini e toscani in genere, ebbe un adoratore e quello eccolo qua che vi parla. credo che solo certi dittatori abbiamo avuto esseri più scatenati di me nell’idolatria. io, nel mio piccolo, da piccolo e poi a lungo fino a un’età in cui di solito ci si scioglie dagl’incantesimi, almeno da quelli familiari, io vedevo mio padre come l’uomo mosè, del saggio froidiano e senza essere per fortuna ebreo ; dico per fortuna non perché abbia qualche avversione verso quel tipo umano (gli eletti sì, che uggia) ma perché non avrei potuto sopportare l’ossessione di quello stesso tipo umano per l’arzigogolo. non so se posso dire che nel duo con mio padre interpretavo il ruolo di un aronne minimo. anche perché non conosco né la storia così come è tramandata né quella del libretto dell’opera di schönberg, di cui vidi una recita a milano secoli fa : sono un melomane e per un rossini mi sposto con gusto da questa a quella città a quel teatro ; dunque sì a mosè di rossini non a mosè e aronne ohi ohi, farmelo piacere nemmen per sogno. dunque mio padre era il mio zeus padre, diciamo così, dalla testa del quale avrei voluto credere di essere nato, a dispetto di mia madre per la quale, è brutto dirlo ma supero la vergogna e dico che per lei non ho mai avuto tante attenzioni né propensioni. sì esisteva, era quella dei tè coi biscotti al plasmon con burro e miele quando ero malato, la signora del termometro, e della supposte ahimè, quella che mi strapazzava nella vasca il glande maltrattandomi il prepuzio ad eliminare quel residuo biancastro di cellule epiteliali morte e sebo che si accumula, se non ci si lava, ( da piccoli bè si sa) nel solco balano prepuziale e che si chiama smegma. al tempo della visita militare, visita al seguito della quale risultai per mia fortuna, di nuovo la fortuna, inabile ai servizi di guerra, a quel tempo ossia diciamo almeno dieci anni dopo i bagni compulsivi di mia madre, ricordo un sordido maresciallo di sanità, un calabrese dall’accento aspirato, che ci raccomandò a noi giovanotti cretini, di lavarci via per bene la ricotta dall’uccello per la visita medica dell’indomani. disse. io avevo il vantaggio che mamma mi aveva coercito ben bene a quell’esercizio. i’ mi’ babbo, a dispetto del ruolo cui sapeva benissimo di essere stato scritturato, era un artigiano, un ceramista d’arte, per essere precisi e tanto famoso per i suoi pezzi d’arredamento e da rivestimento murale così ricercati da poterci garantire una vita agiata, non ricca ma di molto confortevole, in un grande appartamento sopra il laboratorio, ovvero lo studio, per chi conoscesse firenze, in via dei cappuccini, curioso che non ricordi se il civico era il quattordici o il sedici (non ci sono mai più tornato, mai) ma in alto lì dove la città tutt’oggi perde il combatto con la campagna, tra gli ulivi che dominano il paesaggio delle colline a settentrione e dove le stradine denunciano il fatto di essere state tutte viottoli tra i campi, strette tra due muri ; tutto molto macchiaiolo il mio paesaggio dell’infanzia. perché di quel babbo fossi così fanatico non lo so, forse per, no via ovvietà, ma l’idea che egli fosse stato fino a pochi anni prima la mia nascita un guerriero, di quelli che i bambini maschi spesso sognano, un vero combattente della resistenza, uno che aveva contribuito a salvare centinaia di opere d’arte alla rapina dei tedeschi, uno che… arricchendo e stravolgendo con la mia fantasia i suoi racconti, ne vedevo i capelli al vento, biondo era bello e di eredità granducale di noi asburgo toscani, mentre entrava vittorioso, in piedi su camion irti di fucili e di partigiani belli e col fazzoletto rosso a il collo. mio padre era stato anche nei gap (gruppi di azione patriottica, da non confondersi con una ditta di abbigliamento) e, da vecchio e malato, si rammaricò con me di non avere partecipato alla liquidazione di quell’anima nera del professor gentile, bella testa venduta mani e piedi al peggiore fascismo. sempre che esista un fascismo migliore. va bene, se il maschio vuol giacere con sua madre e uccidere il padre ; io, si capisce o scarso o edipo traverso, forse volevo giacere con mio padre e di fatto, uccidere come uccisi a rate e con malanimo mia madre, finché in giorni pentiti e dolenti, non dovetti occuparmi di lei ormai misera e demente e dunque incapace di raccogliere i cocci della mia mente disordinata e cattiva e le mie scuse. non escludo che il mio lato femminile, mi disse una volta ridendo un’amica analista, si sia sviluppato oltre una certa misura – è inutile che lo nasconda ancora a lungo, posso dire qui di essere un omosessuale inattuato, nicht erreichtet, un ibrido di androgino, il che lo ammetterete è un bel pasticcio – e proprio in quegli anni del mio anti-edipo. esiste un’opera, un saggio del duo deleuze-guattari con questo titolo ma qui lo cito solo per il titolo. ora voi direte, questo è uno che sembra sappia un sacco di cose…nooo per carità sono uno che ha sempre orecchiato, con metodo ma orecchiato, leggiucchiato qua e là con impegno, da indolente capace poi di costruire da una paginetta una conferenza ma senza nessuno dei talenti che distinguono la persona dotata da quella adatta a tutto, cioè a niente, un uomo con molte qualità lievi e sporadiche e quindi senza qualità, uno standard ; dai successi ondivaghi  a scuola ; e nella vita : mi iscrissi a legge, con l’offa annunciata che avrei ereditato lo studio avviatissimo dello zio ; superai l’abilitazione con un risultato accettabile e lo zio mi impiegò nello studio di via santa reparata. non che non abbia fatto i miei bei quattrini ma non diventai un principe del foro benché mi siano toccate marchesane e principesse per clienti, ma fui un buon mediatore e si capisce, se non hai doti preclare ti conviene ; sono un pensionato d’oro. per chiuderla adesso con babbani e mammani, mio padre… non so dove pescò mia madre che era una specie di profuga, una francese ingaggiata come nanny dei tre picciriddri di un ufficiale tedesco che dalla normandia se l’era portata a viareggio ; poi lui scampò dietro la linea gotica, mia madre non so ; mai ho capito io come arrivò a firenze mia madre, del resto aveva il dono opposto a quello di mio padre, il brillantissimo super intelligente lucidatissimo ingegno ; lei non fu mai capace di spiegarsi o di raccontare ma incappò in mio zio, l’avvocato, il  fratello di mio padre. e all’inizio pare che la bella, mia madre per l’epoca era bella, fosse contesa tra i due fratelli – entre les deux, mon cœur balance, je ne sais pas lequel aimer – poi mio padre che credo fosse nato stuntman di femmine, ebbe la meglio. per il suo lavoro di ceramicaio di successo, egli viaggiava molto e come don giovanni so per certo che, cento in francia in turchia novantuna ma ma ma in italia impiantò a mia madre maestosissimi palchi di corna. salvo pentirsi quando la prostata lo indusse all’impotenza prima e poi alla morte. da uno di questi viaggi, a vienna per la precisione, un giorno se ne tornò con un regalino, una briccica ma bellina, un coltellino di latta, spuntato. regalo simbolico avrebbe letto con estrema facilità la mia amica psicopompa. il coltellino sarà stato lungo che so quattro dita, ma delle mie di bambino, e aveva il suo foderino di pelle e una catenella d’argento con fermaglio ; serviva a legarlo, come io feci subito, a uno dei passanti dei pantaloni ( allora per reggere i calzoncini io usavo le bretelle n.d.r.). non sono in grado di spiegare come mai e perché divenni pazzo a causa di quel dono… ah dimenticavo di citare la scritta a lettere corsive di fuoco sul fodero grüße aus wien,  saluti da vienna, furono le prime nozioni di tedesco che appresi dal babbus… fu un dono credo, io dico acquistato in un negozietto di souvernirs alla stazione prima di rientrare in italia ma io, appunto, ero per aria dalla gioia più che per qualunque altro regalo ricevuto fin ad allora, mi sentivo come se quel coltellino avesse l’anima di mio padre, oltre la propria di coltellino, e che quindi portandolo sempre appeso ai calzoncini piano piano quest’anima sarebbe scivolata sulla mia. morale, durante un nevicata solenne, bellissima a pochi giorni dalle vacanze di natale, all’uscita di scuola mi avviai come ogni giorno feriale verso casa ma attaccato alla sicurezza del coltellino e al clima natalizio. ero arrivato ormai quasi a destino quando senza intenzione portai la mano al coltellino. non c’era più. disperazione. rifeci tutta la strada verso la scuola con gli occhi il più possibile fissi a terra. la neve, che fioccava come di rado, aveva inghiottito il coltellino cancellando anche la ferita che, in lei cascando a terra, la piccola lama  aveva aperto. non so ridire per quanto tempo durò la mia disperazione, come se con quel coltellino avessi perso tanto colui che l’aveva donato quanto, come dire, la sua fiducia in me in quanto erede d’anima. non so dire se questo abbia o non abbia a che fare con l’edipo o l’antiedipo. ora che ci penso, alla mia amica psicopata questa storia mai l’ho raccontata. morì prima che io mi decidessi ; stop…

Pasquale D'Ascola

P. E. G. D’Ascola Ha insegnato per 35 anni recitazione al Conservatorio di Milano. Ha scritto e adattato moltissimi lavori per la scena e per la radio e opere con musica allestite al Conservatorio di Milano: Le rovine di Violetta, Idillio d’amore tra pastori, riscrittura quet’ultima della Beggar’s opera di John Gay, Auto sacramental e Il Circo delle fanciulle. Suoi due volumi di racconti, Bambino Arturo e I 25 racconti della signorina Conti, e i romanzi Cecchelin e Cyrano e Assedio ed Esilio, editato anche in spagnolo da Orizzonte atlantico. Sue anche due recenti sillogi liriche Funerali atipici e Ostensioni. Da molti anni scrive nella sezione L’ElzeMìro-Spazi di questa rivista  sezione nella quale da ultimo è apparsa la raccolta Dopomezzanotte ed è in corso di comparizione oggi, Mille+Infinito

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