Ascoltare Alessandro D’Avenia è un’esperienza che rinnova la voglia di impegnarsi in questo momento difficile per la cultura e in generale per la società. Il suo intervento a Pordenonelegge è stato carico di energia, non di buonismo o di bontà, ma di positività che rinnova. Per presentare il nuovo libro, “Ciò che inferno non è” edito da Mondadori come i precedenti, parla di questo soprattutto: dell’impegno, che nella nostra vita familiare e professionale non deve mai mancare, della convinzione fondamentale di avere un ruolo nell’esistenza da portare a termine.
Per farlo non usa esempi facili, bensì quel don Puglisi che possiamo senza dubbio definire uno dei più importanti eroi dell’antimafia. D’Avenia lo conobbe come insegnante di religione del liceo che frequentava, e quando non venne a scuola perché era stato assassinato dalla mafia si creò una sensazione di vuoto indescrivibile e incolmabile. I suoi non sono mai libri dai temi facili, sono libri che vanno nel profondo, a toccare temi esistenziali. Parte piano, sommessamente, e parlando di scuola cerca la complicità delle centinaia di ragazzi (e non solo) presenti fuori e dentro dal tendone che raccoglie la metà di quelli che vorrebbero ascoltarlo. Scherza sulla scuola e sull’adolescenza e coinvolge i ragazzi, che sono il suo pubblico d’elezione perché è a loro che si rivolge con più forza, da vero insegnante e maestro.
E poi, quasi d’un tratto con forza riprende la favola “Bianca come il latte, rossa come il sangue” che ha dato lo spunto del suo primo libro, per dire che di sangue si parla anche questa volta. D’altra parte le favole… “Si riceve il sangue lo si deve dare tutto: ricevere e dare, se no la vita non ha senso e Don Pino ha dato tutto. Ma non basta. Ha dato tutto a Brancaccio, a gente che non lo meritava. E col suo esempio affronto il mio mestiere di insegnante, rinnovando la mia speranza ogni giorno. Perché i miei alunni il mio impegno non sempre se lo meritano, ma occorre essere liberi dal risultato, affermare il valore dell’altro indipendentemente dal ritorno che se ne può avere”. E qui il tono si fa alto e le parole profonde: la straordinaria storia di don Pino Puglisi inizia e finisce coi bambini, perché sapeva che da loro sarebbe germogliato un campo nuovo. Per loro costruisce un centro di aggregazione e per loro viene ucciso, perché come dice il suo assassino “portava i picciriddi cu’ iddu”. Quando Salvatore Grigoli, il cacciatore nel romanzo uccide don Pino, riceve da lui un sorriso e non ci dorme la notte. Una cinquantina di omicidi sulle spalle, aveva rapito Giuseppe Di Matteo, poi sciolto nell’acido, ma cambia vita diventando un collaboratore di giustizia.
D’Avenia a questo punto entra nel vivo di quello che ha significato questo libro per lui, la molla che lo ha spinto a scrivere: “Non volevo fare un devozionario, ma indagare il mistero del cuore umano, diviso sempre tra il bene e il male. Non volevo raccontare l’epica irraggiungibile di tanta retorica antimafia, ma un’epica quotidiana. In fondo dobbiamo trovare la soluzione per alzarci al mattino e abitare la nostra limitatissima condizione umana, fatta di cose che si ripetono, di persone che ci siamo scelti che sono sempre quelle. Se uno impara ad abitare il limite e lo sfrutta come trampolino di lancio conduce un’esistenza libera”.
Alla fine D’Avenia legge al pubblico la pagina per cui dice di aver scritto questo libro, che lo ha esaltato e lo ha messo alla prova, sfiancandolo: “Come uomo mi interessa capire come si muore così. Se uno muore col sorriso vuol dire che abita in una regione talmente libera e piena che niente può scalfirlo”.
E mentre si ascolta la morte incombere sul sorriso di don Pino il tempo sconfina per un attimo nell’eterno, grazie al dono estremo di una vita che ci richiama al nostro piccolo o grande impegno quotidiano.