Motel Life – Willy Vlautin

Titolo: Motel Life
Autore: Willy Vlautin
Data di pubbl.: 2020
Casa Editrice: Jimenez
Genere: letteratura americana, Romanzo
Traduttore: Gioia Guerzoni
Pagine: 203
Prezzo: € 18,00

È una gelida alba invernale. Frank si sveglia nella sua stanza di motel. La neve turbina dentro: un’anatra, in piena notte, ha sfondato la finestra della camera. Un presagio? Accovacciato ai piedi del letto suo fratello Jerry Lee, “in mutande, giaccone nero e una paio di vecchi scarponi da lavoro”, piange a dirotto. Frank, reduce dall’ennesima notte di bagordi alcolici, fatica a mettere a fuoco le parole che, inesorabilmente, gettano luce sull’accaduto. La verità è spietata: alle quattro del mattino, ad un maledetto incrocio, Jerry Lee ha investito un ragazzo in bici, uccidendolo sul colpo. Sotto la bufera, Jerry Lee ha raccolto dall’asfalto il corpo straziato e l’ha posizionato sul sedile posteriore della sua vecchia berlina di colore giallo. Jerry Lee è abbastanza certo che nessuno l’abbia visto, “la strada era deserta, solo un po’ di luce dai lampioni”, e afferma di aver rispettato il codice della strada, “avevo io la precedenza, sono sicuro, lo giuro”. Jerry Lee però non ha chiamato un’ambulanza, né è andato in ospedale. Come ogni sera, era ubriaco marcio. La galera, lo avverte nelle ossa, è per lui una destinazione sicura. Cosa resta da fare ai fratelli Flannigan, se non fuggire?

Motel Life è il romanzo d’esordio di Willy Vlautin, ora pubblicato da Jimenez Edizioni, con la traduzione di Gioia Guerzoni. Nella postfazione, lo stesso autore ricorda di averlo scritto, per lo più, nella cucina della sua piccola casa di allora a Portland, Oregon. Motel Life, “un sogno triste, ma che comunque mi ha portato grande conforto e sollievo”, è però ambientato a Reno, nel Nevada. Vlautin dichiara il suo amore per i motel della profonda provincia americana, amore che è anche incantesimo, malìa, simpatia per una moderna forma di decadenza. A Reno, una delle capitali del gioco d’azzardo, i motel “con l’avvento delle strutture che combinavano casinò e albergo” risultarono presto strutture ricettive superate, regredendo così, da rifugio economico per famiglie in vacanza, a ricettacolo di tossicodipendenti, prostitute, vagabondi, ex carcerati, giocatori di slot machine indebitati.

Il motel, scrive Vlautin, è “una casa istantanea”, un simbolo “di sicurezza e di fuga dal mondo”. E, per lui, anche un monito piantato sul suo cammino, “un costante promemoria di quanto mi stessi avvicinando a essere uno dei falliti, esclusi e sventurati che ci vivevano”. Il Mizpah, il Morris, lo Chalet, il 777, l’Heart of Reno, il Sand man… il Town View, il Windsor, l’Olympic, l’Ace, il Cabana… il Golden West, l’Uptown, il Savory, il Flamingo, il Coach… nomi di motel seducenti, esotici, incerti come un tiro di dadi.

La scrittura di Willy Vlautin, voce e chitarra delle band alt-country Richmond Fontaine e The Delines, è animata, incalzante, intinta nel gergo essenziale della parola parlata. Vlautin appartiene alla letteratura americana degli sconfitti, degli umiliati e offesi, tanto da essere stato accostato a John Steinbeck, a Denis Johnson, a John Fante. Letteratura certamente radicata in un viscerale sentimento di fascinazione per i luoghi che ricrea e descrive. I dialoghi e la narrazione in prima persona di Frank restituiscono un quadro vivido di vite ai margini, ravvivate da una allegrezza alcolica posticcia.

I personaggi del romanzo sembrano rincorrere, con ingenua testardaggine, un sogno prossimo a svanire. I fratelli sono vinti dalla nostalgia di una madre morta prematuramente. C’era un prima migliore di adesso: è questa la premessa ontologica di Motel Life, valida per sia per gli uomini e che per i posti (bar, autorimesse, sale da gioco e ovviamente i motel). L’aura dolorosa del ricordo accompagna la figura di Annie James, ex fidanzata e unico amore di Frank, miraggio evaporato nel placido nulla di una sera come tante, una sera senza nuvole sopra la città. “Non riuscivo a credere ai miei occhi. Quell’uomo di mezza età. La tv accesa con il volume spento, la musica della radio. Le ginocchia nude di Annie sulla moquette logora. Alle sue spalle il quadro di un cowboy”. Vlautin racconta un’America di assenze che bruciano l’anima, di smarrimenti inattesi, di talenti sprecati.

Motel Life, sottolinea lo stesso Vlautin, è uno studio sull’autolesionismo. Il fratello di Frank è storpio, eredità non modificabile di uno stupido gioco giovanile… I personaggi di Motel Life si crogiolano nel pantano del fallimento. “Sento che sei ancora un ragazzo a posto, ma sei incastrato nella stessa routine in cui eri quando hai smesso di lavorare con me”, dice a Frank il suo vecchio capo Earl Hurley. Perché provarci, se poi non vi si riesce, se tutto resta uguale a prima? La tragedia spezza l’incanto di giorni, mesi, anni vissuti sotto il segno di una cruda apatia. Ora un mostro silenzioso azzanna Jerry Lee. È il sentimento dell’irreversibile, la colpa. Ad essa si associa il richiamo alla responsabilità. Aver cura di sé, tuttavia, è un apprendistato difficile.

La prima fuga dei fratelli Flannigan fallisce miseramente. Jerry Lee abbandona Frank nei pressi di un ristorante. I soldi che ha in tasca sono a malapena sufficienti per tornare a Reno con un Greyhound. “Mi sedetti al bancone e continuai a guardare fuori dalla finestra aspettandomi di vedere Jerry Lee, ma ogni volta che davo un’occhiata non c’era niente, solo neve che cadeva e lampioni in lontananza”. Il giovane randagio non sopporta di essere un peso per se stesso e non vuole esserlo più per il fratello. Inaugurare l’ennesima cassa di birra in compagnia, ricevere consolazione, rinviare la sentenza: fino a quando? Più semplice, immediato, lanciare la Dodge solitaria sotto un orizzonte imbiancato. “Non sapevo bene dove stavo andando. Guidavo sulla 95, verso nord, e a un certo punto ho visto il ragazzino in mezzo alla strada”. Più semplice accettare la disperazione e scivolare nel delirio. “Era tutto insanguinato e piangeva. Ho cercato di fermarmi ma andavo troppo veloce. Con la frenata per poco non sono uscito di strada, ma proprio quando stavo per centrarlo lui è scomparso e tutto è tornato normale. Ecco com’è andata. Ma non mi sono fermato: avrei dovuto ma non l’ho fatto. Al tramonto ero già chissà dove”. Jerry Lee si libera dell’auto. Poi si punisce, sparandosi alla gamba malata. Frank lo ritrova in ospedale. Quando due poliziotti vanno a interrogare Jerry Lee, Frank capisce che è tempo di ripartire insieme. Rotta verso Elko, sull’onda di una puntata felice alle scommesse (Evander Holyfield vs Mike Tyson, epico match del 9 novembre 1996), che gli frutta migliaia di dollari.

Elko, nel desolato nordest del Nevada, rappresenta la possibilità di incontrare Annie James. È da lì che la ragazza indirizzava a Frank le sue ultime lettere. Frank è egoista? Perché trascina con sé un fratello febbricitante, incapace di reggersi in piedi? Annie James si è forse riscattata? E si può immaginare di riscattare se stessi aggrappandosi alla salvezza di un altro? In Motel Life viaggio coincide con affabulazione. Frank è un narratore nato. La sua debordante fantasia partorisce folli scrittori on the road e meravigliose donne armate fino ai denti, incredibili ammutinamenti di navi ed eroiche missioni nei cieli di guerra (“Un mattino eravamo in volo per la Germania, quando ci siamo imbattuti in uno stormo di caccia tedeschi ed è incominciato un combattimento ravvicinato pazzesco”), solo per sollevare il morale di Jerry Lee, altrimenti abbarbicato, nel chiuso della solita stanza di motel, alla visione di vecchi film trasmessi in TV. Jerry Lee, versato nel disegno, avrebbe potuto avere successo come artista? Nell’iperbolica invenzione  letteraria affiora, circonfuso di amarezza, carico di rimorso, l’altrove delle occasioni mancate.

Scrive Willy Vlautin: “Motel Life è sempre stato il mio mondo preferito. Può essere ammaccato e buio, ma è il sogno a occhi aperti sulla nostalgia di casa che vorrei poter vivere in eterno, e nel mio cuore non sono mai lontano da Reno o Frank e Jerry Lee o Earl Hurley o Annie James. Sono dentro di me come il sangue”.

Salentino nato "per errore" a Como (anche per ammissione di chi lo conosce), si laurea in Filosofia a Milano, con una tesi sul concetto di guerra umanitaria. Vive a Bari con Mariluna. Adora il Mediterraneo, ama Lecce, Parigi e Roma. Sue passioni, a parte la buona tavola, sono la letteratura, il cinema, il teatro e la musica. Un tempo, troppo lontano, anche la politica. Suo obiettivo è difendere, e diffondere, la pratica della buona lettura. Recensisce i libri meritevoli di essere considerati tali, quelli che diventano Letteratura, con la L maiuscola, e che gli lasciano un segno. Alessandro scrive con regolarità su Zona di Disagio, il blog del poeta e critico Nicola Vacca, collabora con la rivista Satisfiction, anima il blog di economia e di politica Capethicalism, e scrive di serie TV su Stanze di Cinema.

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