L’EzeMìro – Genio pontieri

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                           Robert Doisnau (1912-1994) – La passerelle à vapeur – 1957

Anche quella mattina di un giorno con limite tendente all’indefinito, prima di passarla il professore si soffermò sulla soglia della camera nuziale, spiò la vaporosa barriera tra i due territori limitrofi ma impenetrabili di lui e della moglie e partì. Inteso Pepigréek dalla fesserìa sociàl degli studenti, il professore portava quel nomignolo in facoltà con la noncuranza di chi non ricorda illusioni, delusioni o che nessun fantasma agita nella nebbia dei vivi che osservino il chiarore di soli avvenuti, poco a venire; aveva servito nei pontieri del genio e che la sua vita fosse un ponte sospeso, ingegnoso nel non crollare, gli sembrava interessante; Pepigréek per natura era infatti ingegnere. Dopo ore d’analisi del regime-tensionale-e-deformativo-in-elementi-strutturali-soggetti-a-sollecitazioni-semplici, sull’asìntoto del pomeriggio uscì nel piazzale di facoltà, alla luce rossa del sole saettante sullo scudo di cristallo dell’edificio. Sorpreso da uno di quegli impulsi di cui solo le più profonde profondità delle anime medie sono consapevoli ma non le loro superficiali pellicole protettive, il telefono, lo stesso da anni, lo indusse a chiamare la moglie. Stai tornando, gli rispose quella con il tono interrogativo delle donne avviluppate nelle proprie devozioni domestiche, sicché alla domanda priva di un prima, con tono defibrillàto e fulmineo, Mi domandavo se ancora ha senso ch’o torni a casa, replicò Pepigréek; sospirò e tacque, hshhh, riattaccò. Poco dopo egli saliva a piedi nel suo appartamento, signorile assai per l’agenzia che gliel’aveva venduto, ne aprì la porta, entrò. Con la sensazione di innumerevoli finestre spalancate, che non sopportava, oltre il ronzio dell’aspirapolvere che detestava, scivolò nell’apnea della stanza coi due letti spigolosi come frigoriferi, chiuse la finestra, schiuse il proprio armadio. Quello della moglie osservava. Valutò il contenuto, calcolò come, stivò in una valigetta ciò di cui si vestiva con parsimonia, il suo spazzolino, due tubi sani di dentifricio, due saponette, i rasoi trilama che gli duravano mesi e la bomboletta della schiuma da barba; in uno zaino accomodò la seconda delle sue due coppie di scarpe, gli scarponi da escursione e cantiere, due paia di lindi calzettoni, s’infilò nelle cinghie; non gli parve di sentire fruscìo di rimpianti alle spalle e se sul limitare lo colse la tentazione di riaprire la finestra nondimeno lo vinse l’opposto capriccio. L’aspirapolvere ora taceva, con cautela posò le sue chiavi su una mensola senza storia, rapido spalancò, passò, richiuse la porta. Nessuna domanda tardò.

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Patrice Leconte – Le mari de la coiffeuse – Il marito della parrucchiera v.o.

https://www.youtube.com/watch?v=NkvBFVVIChk&list=PLiQzwTKr8QZYOQwCK4o2o-d2ThPID5pwV

BA 10

Pasquale D'Ascola

Pasquale Edgardo Giuseppe D'Ascola, già insegnante al Conservatorio di Milàno della materia teatrale che in sé pare segnali l’impermanente, alla sorda anagrafe lombarda ei fu, piccino, come di stringhe e cravatta in carcere, privato dell’apostrofo (e non di rado lo chiamano accento); col tempo di questa privazione egli ha fatto radice e desinenza della propria forzata quanto desiderata eteronimìa; avere troppe origini per adattarsi a una sola è un dato, un vezzo non si escluda un male, si assomiglia a chi alla fine, più che a Racine a un Déraciné, sradicato; l’aggettivo è dolente ma non abbastanza da impedire il ritrovarsi del soggetto a suo Bell’agio proprio ‘tra monti sorgenti dall’acque ed elevate al cielo cime ineguali’, là dove non nacque Venere ma Ei fu Manzoni. Macari a motivo di ciò o, alla Cioran, con la tentazione di esistere, egli scrive; per dirla alla lombarda l’è chel lì.

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