…recouvrement méthodique de la laideur et de la beauté du monde par les équations de la pensée calculante, déni obstiné de la finitude: dans son combat contre la mensonge l’art est en train de perdre la partie. Alain Finkielkraut – L’Après littérature – Stock ed.
C’era un a volta e due e tre nel remotissimo principato di Wok il tempio di Sian Po. C’era nel senso che era tutto quello che c’era; il resto miseria, mercanti e soldati e questa è una favoletta povera ed esemplare tanto è prevedibile la sua parabola a scendere.
Il principato, lo dice il nome, era retto da un principe che faceva tutto quello che fa un principe, ossia inaugurare ponti e tempietti, gli innumerevoli tempietti dedicati al Grande Wok, creatore di quell’angolo di cielo e di terra, ospizi, pochi per i poveri, e molti ritiri per i vecchi ricchi; ma soprattutto nuovi reparti di forze armate e nuove strade, tante strade. Le strade che il principe inaugurava portavano a niente e da niente partivano; belle tuttavia tutte e tutte lastricate a modino, dritte dritte come un tiralinee alcune e altre tutte un’ellisse o un quarto di raggio e ben carreggiate e illuminate persino di notte con certe torce che un esercito di lumài curava stessero accese dall’alba al tramonto e viceversa; viste dall’alto da un dirigibile, ci fosse stato un dirigibile a disposizione, sarebbero sembrate quei segni perfetti, sicuri, con un sol gesto tracciati sulla tela o sul vetro da Picasso. Però brillanti. Nel nostro caso invece si trattava di strisce segnate ora nella savana ora sulle pietraie, ora e più spesso in mezzo ai campi di cavoli o ai frutteti e in spregio totale al lavoro di chi quei campi coltivava e che però tacere bisognava e andare avanti. Non era raro, anzi l’opposto, che questo o quel viandante, coltellino e bisaccia di juta alla mano, alla cerca del tarassaco buono o dell’asparago selvatico dei prati, si imbattesse all’improvviso nell’inizio – o nella fine che tanto era lo stesso – di una bella strada vuota del tutto di traffico – quale poi – e non destinata a portare qualcuno da nessuna altra parte che alla sua fine. Poiché a Wok le scuole erano capanne dove si insegnava giusto a fare le quattro operazioni utili a misurare, vendere e comprare, il compito degli scarsi ingegneri progettisti e costruttori tutti affittati all’estero, era di non far partire o arrivare nessuna di quelle strade a un paese o a una città, alle sponde di un lago o al principio di un bosco o in cima a un monte dove incontrare un rifugio o una capanna. Gli abitanti di tutto il principato per andare dove dovevano andare si servivano solo di certi angusti sentieri tali che in nessuna stagione, pioggia o non pioggia, nessun carro avrebbe potuto passarci. Del resto quali carri: i traffici tutti si compivano trimpellando a piedi o a dorso di mulo.
Il principe infine faceva visite di cortesia ai pochissimi ricchi e a chi stava bene in salute, augurando loro sempre il nuovo e il meglio per il loro stato soave. Curioso, starete pensando voi miei piccoli lettori, che un principe si curasse dei ricchi e dei sani. Curioso sì ma a Wok era così. C’era nel principato una diffusa attitudine a fare il contrario del prevedibile logico o a modificarlo molto, anzi a ribaltare le carte in tavola là dove non c’era tavola alcuna. Le usanze e i costumi, le sollecitudini normali nel mondo, che come si sa è improntato alla massima attenzione per chi ha meno o pochissimo per chi sa o vuole sapere, e per chi di salute non scoppia e se scoppia è perché la salute di colpo boùmmete in mano, a Wok non si conoscevano affatto. Tutte queste che per noi oggigiorno sembrano senza dubbio bizzarrie erano in realtà il volere del Ré che peraltro come tale non c’era; a tutto bastava il principe, mentre Uni e Sovrani, la figura del Ré l’impersonavano tutti insieme il sacerdoti del tempio di Sian Po. E al tempio ecco portava l’unica strada di una qualche utilità del principato di Wok. Torme di pellegrini infatti andavano e venivano per quella striscia ben asfaltata che collegava il palazzo principesco al tempio di Sian Po fuori dal quale, una volta ogni anno, a ciascun abitante del regno era prescritto andare a stendersi e prostrarsi in venerante attesa. Dal portone del tempio e dopo che a loro ghiribizzo avessero deciso che l’attesa prostrata fosse durata quel che fosse durata, i sacerdoti uscivano ad ascoltare suppliche e a impartire sermoni o, in mancanza di meglio, benedizioni; tutto a pagamento, poche lire è ovvio, e in obbedienza ai prescritti di un oscuro decalogo redatto nella notte dei tempi da chissà quale mano ma cui tutti, con tiepida quanto stordita fiducia si attenevano a Wok. Purtroppo o per fortuna di quel testo originale, e si dice squinternato, non è rimasto ma nemmeno un pezzetto. Al solo vedere socchiudersi e cigolare di quel portone – riccamente scolpito, vi viene da chiedere oh miei lettorini, sì – di quel portone i battenti per far sgusciare i fruscianti bordi verde acceso delle loro vesti talari dai colori schiribillanti, la folla accalcata scattava ginocchioni piegando la fronte come un solo uomo per terra. Qualcuno prima che fosse concesso levarsi, sbirciava dei sacerdoti i bei copricapi a larghissima tesa e fatti di piume di piccione; la notizia è che per fare un solo cappello occorressero almeno due per due per mille piccioni disposti a farsi scannare e ad immolare le loro piume per la sacralità dei capi sacerdotali. Oltre a fare il Ré, quindi o niente o a comandare al principe le azioni di governo, i sacerdoti in udienza pubblica e collettiva prodigavano anche in quelle occasioni consigli o previsioni; era noto che i sacerdoti prendevano e distribuivano saggezza ma non era noto, non era mai stato noto, perché fosse così inestricabile, indecidìbile, inarrivabile il criterio con cui essi intessevano risposte a quesiti tra i più vari. In altre parole nessuno capiva niente degli statements che i sacerdoti via via producevano. La sera vedeva i sacerdoti assorti intorno al fuoco degli arrosti – il principato non lesinava in macellai e in soldati – a dibattere incessantemente per ore sotto gli sguardi affamati, sì, ma estasiati per la cabala di parole che saliva al cielo piroettando, un attimo sfolgorando, crepitando tra le scintille del fuoco e poi più. Bello spettacolo.
Con ciò a caso qualche burlone, ma di burloni ve n’erano meno che pochi nel principato, si divertiva a proporre talvolta ai sacerdoti di Sian Po quesiti nello stile scombiccherato delle loro risposte, a formulare proposizioni nella loro tipica forma astrusa, inafferrabile, deragliata; ma i sacerdoti per solito a quelle provocazioni gnanca un plissé; restò noto negli anni circolando campagna campagna il quesito proposto da una contadina testolina fina che chiese il contrario di ciò che intendeva sapere; il sacerdote in quella occasione come in altre fu prontissimo a ribaltare la domanda in modo che la risposta sembrasse a favore, ovvero estremo sfavore della donna; colei se ne tornò soddisfatta a casa sua e determinata nel proposito che aveva per così dire estorto al sacerdote. Raggiunse il marito nel campo, lo salutò a occhi bassi come al solito poi, senza esitare, afferrò la ben affilata vanga che l’uomo aveva piantato in terra per asciugarsi il sudor della fronte, la levò in aria, la fece roteare una, due volte ben ferma sopra la propria testa e con un colpo preciso staccò la testa di lui: le vessazioni e gli insulti che l’uomo riservava a lei e solo a lei non sono l’argomento di questo racconto.
Di là da questa attività oracolare i sacerdoti esercitavano l’avvocatura e l’ambasciatura, la legge e il suo apposto e infine si esercitavano tutti i giorni tutto il giorno nel dibattito, gioco affine ai circhi di belve e gladiatori altrove e in epoca molto più tarda. La domenica in piazza per esempio, anche se non sappiamo come chiamassero la domenica e se fosse davvero il settimo di più graditi giorni nel principato di Wok, i migliori, i più esperti, i più brillanti nella replica tra i sacerdoti facevano sfoggio coram populo della loro abilità dibattendo a coppie o a squadre su temi più tipici del repertorio dialettico: l’essere e il non essere, il fare e il disfare, l’andare e il sostare, il carro davanti e i buoi dove, Achille e la tartaruga, benché non è plausibile che a Wok sapessero e di Achille e delle tartarughe data l’assenza di sbocchi al mare del principato, e il più semplice ma più appassionante quesito circa le uova e le galline; diatribe o per dirla citando un romanzo, giochi delle perle di vetro, che con metodo non portavano a nulla, molto accanitamente di tutto al contrario e, non è chiaro se per premio alla squadra o al singolo vincitore della contesa, alla costruzione di nuove strade. Ora voi state per chiedere oh lettorini, ma di che cosa campavano nel principato. Pertinente domanda. Intanto i sacerdoti erano mantenuti a minestre dello stato, poi c’erano le miniere di sale che rendevano un bel po’ dal momento che il sale era a quel tempo salata moneta. Chi lo cavava era un miserabile che viveva come poteva, di stenti, articoli che a nessuno riempiono in genere la pancia. Idem si dica dei contadini il cui compito era nutrire principe e cortigiani e sacerdoti; il resto dei loro frutti sarebbe restato a loro per legge ma si dà il caso che quel che fosse restato, quando fosse restato, sarebbe servito a malapena a mangiare e a venderne il più possibile per comprare un vestito talvolta, un paro di braghe, una coperta, una camicia, non si dice una cravatta. Per legge tuttavia i contadini non pagavano tasse e per legge ciò li rendeva felici. Insomma anch’essi erano dei miserabili e i sacerdoti voraci. Infine nella scala sociale c’erano i mercanti. Godevano del privilegi di chi porta denaro sonante in casa e in cassa per via dei loro traffici carovanieri quotidiani con l’estero, di import-export in sintesi. Compravano a dieci ciò che rendeva loro mille o più di mille così da fruttare loro il necessario e il lusso. Con qualche rischio, ché oltre i confini di Wok, su certe rotte maestre poltrivano o stavano in agguato se ne avevano voglia i predoni, mestiere questo e abilità tranquilla e senza rischi, visto che nessuno soldato delle scorte carovaniere era in grado di afferrare la spada o qualsiasi altra arma prima di esser fatto morto da uno di loro. Il sangue scorreva a bigonce, i torrenti eventuali se ne facevano rossi, le teste imputridivano al sole, la terra si mangiava tutto allegramente.
Ora, la quiete inerte del principato fu rotta un bel giorno dall’empia azione appunto di una cospicua banda di questi predoni. Accadde infatti che una carovana corposa di mercanti di sale – a titolo statistico si ricordi che c’erano carovane di tessuti a mano, di ceramiche assortite, di frutta e verdura che sfuggiva alle mascelle dei sacerdoti, di strumenti musicali( a Wok era proibito suonare ma si potevano costruire tamburi e pifferi, trombette e chitarrine ed esportarli) – una corposa carovana fosse stata assalita da mille predoni, al solito agguerriti, e appena fuori dalla sbarra di confine con Wing, repubblica semipresidenziale. I soldati di scorta e di guardia al confine furono sferruzzati, il sale fu tutto sequestrato e anche i muli e i cavalli e le armi e ogni cosa insomma, ma ai mercanti di persona nel frangente non fu torto né un capello né levato un cappello. Per tutti fu chiesto invece a Wok un riscatto talmente salato che il principe, un ragazzetto di dodici anni a quel tempo, e attento per lo più a suoi trenini di legno che alle faccende di stato, il principe si recò al tempio e interrogò con animo insolito cioè schietto i sacerdoti, Che fare? La domanda dritta e diretta sconcertò quegli uomini riflessivi che lì per lì non seppero come ribaltarla, si ritirarono in conclave e dissero al principe non senza ma rapidi giri di parole di aspettare mentre i mercanti, in numero di cento, a ogni giorno di ritardo nel pagare, temevano per loro sorte intera e delle loro più esposte parti del corpo e ogni giorno mandavano suppliche al tempio e alla loro potente lega, la Confcommercio. Ahi ahi ahi, si lamentarono i sacerdoti più anziani ma dopo alcuni giorni di conclave e aver ricevuto nel frattempo dai predoni ceste con un assortimento di dita e orecchie, qualche naso e solo un paio di mani tagliate ai mercanti prigionieri come avvertimento, Eh bè bè bè, conclusero, Che si mandi e rimandi dai predoni una delegazione e che a tratti si tratti e ritratti; cosicché a dorso di mulo e in pompa magna furono spediti oltre confine cento sacerdoti, un negoziatore per ognuno dei mercanti. I predoni accolsero l’ambasceria con gran savoir faire, eressero tende dotate di ogni conforto, di acqua e di vini pregiati, tutto rubato; e riempirono bacili di baci di dama – intesi come baci di voluttuose ballerine – tra cosce di pollo e danze, secondo le cronache perlopiù lascive e intese a corrompere la vista e le mani dei sacerdoti. Al giusto punto, nel turbinìo di discussioni eccitate dal vino e dalle ragazze che scivolano dappertutto tra le vesti dei sacerdoti; tra dibattiti ebbri della soddisfazione che dà l’argomentare per argomentare anche se gli elementi del processo sono inconsistenti e fini a se stessi, i sacerdoti conclusero, Ma benissimo è chiarissimo, ogni cosa intelligentissima, che non furono i predoni a impadronirsi dei beni dei mercanti ma questi a darli ai predoni e che per questo si incontrano colpevoli, colpevolissimi, traditorissimi degli interessi dello stato di Wok e che per tanto il principato è allegrissimo e contentissimo di pagare il riscatto dovuto dovutissimo come compenso ai generosissimi predoni per essersi presi la briga di mantenere gli incautissimi, paurosissimi, balordissimi mercanti a spese loro per tutto il tempo di un’inevitabilissima attesa. Insomma i colpevoli dell’assalto non erano stati i predoni ma i mercanti. Pertanto poiché i predoni non avevano tagliato loro la testa, il principato di Wok avrebbe provveduto in toto a tutte le spese per il taglio di dette teste. Pena, questa della decapitazione che, per ovvi motivi, non perdura nella memoria del punito.
Sarebbe andata così ma così non andò. In una lettera arrivata or sono pochi giorni qualcuno scrive che, he just loves happy endings, e si domanda e lamenta come mai in questi raccontini brechtiani mai a memoria di lettore si arrivi a un tal finale magari annunciato da un messaggero a cavallo. Ebbene, ubbidendo alle leggi di somiglianza col vero, col bello e col buono, alla teoria del bicchiere mezzo vuoto e mezzo pieno, e del se l’è meglio un uovo oggi di una gallina domani, possiamo del caso presente, state senza pensieri principianti lettori, possiamo preludere appunto alla più felice delle soluzioni. È noto, e al fatto fu data grande enfasi propagandistica all’estero, che ai mercanti non fu torto un capello né tagliato altro che già tagliato non fosse stato. Nell’istante in cui nella pubblica piazza stava loro per cadere la testa arrivò infatti un messaggero a cavallo, ad annunciare che i sacri confini di Wok erano stati assaliti dalle truppe di Wing, per di più alleate con tutti i predoni in servizio. Ai mercanti fu resa in fretta la libertà, data un’arma, un armatura, un pennacchio, e furono spediti con tutti i soldati del principato a respingere il nemico invasore. I mercanti però ne approfittarono per allearsi con esso appena ne furono in vista e ne ebbero modo; lo misero in guardia sull’inutilità delle strade di Wok e subito dopo guidarono la marcia delle truppe attraverso allegri torrenti e campagne, colline e boschetti fino al tempio di Sian Po; lo presero d’impeto, ne sfondarono portone, porte e finestre e ne abbatterono le mura. I sacerdoti furono arrestati e il principe deposto, Del resto non ne vedevo l’ora, dichiarò. Lo stato di Wok cancellato e inglobato nella repubblica di Wing. Il suo presidente decretò che si unissero le strade in un tutt’uno coerente e che si mettesse fine a tutto il resto, oracoli e dibattiti e ogni cosa, tempio e sacerdoti. E a questi, sarete ansiosi piccoli lettori di sapere, bè è semplice a ognuno venne tagliata la testa, Utile solo in un caso, per cascare di sotto, conclusero il semipresidenziale presidente in un suo public speech e le Confecommercio di Wingwok Unite, in una nota stringata.
Ecco come in apparenza la storia finì.
In apertura: Four Hours di Paul Fenniak