L’ElzeMìro – Dopomezzanotte-L’avvocata

Al raccontino che segue è difficile calcare in testa un cappello adeguato, di sicuro non uno da baseball. E ciò succede sempre di più in questi dolorosi tempi di malgusto e guasto di intelligenze e fatica nel trovarne, come di rado è successo in altre epoche. Ci sono, pare, dei poveretti che non solo le perle ma nemmeno i gusci delle cozze saprebbero apprezzare ; i gusci, prodigiosi concreti, fabbricati da chi se non dalla natura, in virtù della sua strabiliante abilità nel sorprendersi, e tali da racchiudere una valva la cui unica risorsa vitale è l’acqua con tutto ciò che vi transita a fermenta. La valva non fa niente, non ha obbiettivi, non lotta più di tanto né divora devastando alcunché ; tace per mancanza di strumenti atti all’esprimere giudizi e della voluttà conseguente, vive appagata dal proprio esserci ; o almeno così pare ; a un certo giorno la sua vita finisce nello stomaco di un mammifero dalle complicate e ficose esigenze culinarie, fossero quelle soltanto. Questa è ovvio che sia un’interpretazione ma a questo punto se il mondo sia o non sia altro che volontà di interpretazione pare qui la domanda non posta.

Dunque Mèndich, il dottor Mèndich si svegliava tutte le mattine all’alba per allestire il complesso teatrino delle sue esigenze : preparare senza por tempo in medio un caffè alla turca con la polvere adatta e l’indispensabile pentolino di alluminio – l’unica cosa, oltre gli abiti e le scarpe che aveva indosso, un fagotto con altre poche cose e una terribile tovaglia a fiori, che la sua nonna riuscì a portare in salvo sulla nave inglese che la evacuò da Smirne nel 1922 – berlo tutto da una scodella, il caffè, a volte con tre gocce di limone aggiunte ; poi apparecchiare con cura il mezzo tavolo del cucinino, mezzo perché più grande non ci sarebbe stato, con la tremenda tovaglia a fiori della nonna : coltello per il burro, cucchiaio per la marmellata, chicchera e piattino di Meissen per il tè, che si sarebbe servito stavolta per la colazione ma più tardi, dopo l’impeccabile e quotidiana lunga toilette. Però, sempre dopo il caffè e dopo avere riassettato il suo lettino nel piccolo dormitorio e averne spalancata la finestra, inverno ed estate, per arieggiare e ascoltare per qualche istante, un minuto buono alle volte, le chiacchiere dei passeri o di altri volatili indaffarati a contarsela su tra le fronde dei ligustri che ombreggiano la piazza su cui si affacciava il suo bilocale stretto, solo dopo, con puntualità alpina e ferroviaria, svuotava il proprio intestino dalle feci ; immediatamente a seguire l’atto, Mèndich perdeva qualche istante ad esaminarne massa, consistenza e colore, lì su fondo acquoso della tazza ; Per quanto tempo ancora dovrà andare avanti questo martirio… l’espulsione di me, mormorava premendo il pulsante dello sciacquone. Quest’ultima esternazione di commiato era declinata com’è naturale sempre in modi diversi ma si può dire che il succo delle parole fosse, volta più volta meno, sempre uguale a sé stesso. Solo adesso Mèndich entrava nella vetrina della doccia : si bagnava prima per due minuti, chiudeva l’acqua, poi si insaponava, poi si sciacquava per un minuto – questi tempi erano dettati da una cronometro subacqueo che portava al polso solo per questa incombenza – infine, dopo una rasatura meticolosa davanti allo specchio del lavabo e nettate le orecchie con una spugnetta apposita, si asciugava dai residui d’acqua, e, perché si costituisse in invisibile bozzolo si cospargeva il corpo nudo di un profumo personale di una marca preziosissima. Vestito allora l’abito quotidiano – ne aveva due, uno per l’estate uno per l’inverno entrambi di un grigio ricercato – e annodata alla camicia, sempre senza deroghe bianca, una delle cravatte della sua ricca collezione, entrava ancora in ciabatte, pianelle di lana cotta, nel cucinino a scaldare l’acqua per il tè in un bollitore elettrico ; aspettava con impazienza i pochi istanti necessari perché l’acqua raggiungesse la temperatura adatta al tè usato, ma al mattino preferiva di solito un Assam nerissimo, la versava nella teiera, sempre di Meissen, preriscaldata e finalmente si sedeva per la colazione. È trascurabile l’elenco quasi sempre uguale delle cose che mangiava per cui, e per tagliare corto, si può dire che circa due ore dopo il risveglio Mèndich era in grado di uscire per andare al lavoro. Di mendìco. Da Mèndich mendìco, ovvero mèdico : un giochetto di parole che ripeteva spessissimo a chi gli avesse chiesto della sua professione, Lei è mèdico – No, mendìco. Mendicante fa prima la carità in casa tua… e men dici meglio dici, sbatteva talvolta in viso al meschino questo proverbio, attinto a chissà quale fonte, non si escluda greco-turca.

Mèndich si era laureato in medicina e l’aveva praticata come tale : toccare i corpi, osservarne la periferia, ascoltarne i moti interni e i segnali che questi moti avrebbero potuto dire della morte, se imminente o soltanto possibile, per concludere, nelle occasioni necessarie, che d’aspetto sta bene. Assegnato da subito e per molti anni al sanatorio di*** in mezzo alle Alpi, lo aveva entusiasmato da subito quell’incarico di clausura. Un po’ perché lo stipendio gli aveva permesso di riscattarsi da un giovinezza di sacrifici, un po’ perché lassù tra valli e prati in fior, sintonizzava il proprio al cuore des Zauberberges ovvero de la montagna magica o incantata. Della caricatura, cui l’età e i mali destinano gli essere umani, aveva un discreto orrore – discreto perché cercava di non darlo a vedere, anche se in fondo auscultare i bronchi catarrosi di una bella donna era un’esperienza tollerabile – orrore cui i pazienti aggiungevano il carico da undici dei loro odori di carne mal lavata o non lavata del tutto e del non sapere oltretutto di essere portati a spasso dal nemico : l’essere senza pietà vivi.

Mèndich si era votato fin da piccolo invece alle arti – aveva studiato con profitto il violino, disegnato con accanita passione il disegnabile, appresi i rudimenti del ballet – e allo studio delle lingue : quanto alla sua sposa, la letteratura, la leggeva sempre in originale e scriveva ogni giorno in ubbedienza al motto nullo die sine linea ; per fare due chiacchiere intelligenti parlava quasi sempre da solo, rimuginava su di sé e si proclamava scrittore ; non di fare lo scrittore, Non si può fare lo scrittore lo scrittore è fatto, era il pensiero che lo visitava come un angelo, lo scrittura è fabbricata altrove… si tratta di indovinare dove. Con questi pensieri in testa sedeva appunto tutti i giorni a un suo tavolino striminzito, nel soggiorno dalle pareti tappezzate di dischi e libri, su quale stava sempre aperto un enorme quaderno rilegato di tela nera simile a un libro mastro, fogli a righe, coi margini segnati, utile, aveva pensato all’acquistarlo, per le note allato. Il quaderno stava lì, beante e muto non fosse stato per i morceaux choisis, le postille, le frasi sciolte in abbandoni di mezza riga, le singolo parole che Mèndich collocava a penna stilografica sulle pagine, senza che per questo le sue parole si agglutinassero in niente di simile a una narrazione e nemmeno a degli aforismi. Afrorismi… io conosco solo afrorismi da ambulatorio, lesse una sera il motto che aveva riportato su carta la sera avanti. Questa frase per un po’ lo fece ridere ; del resto i giochi di parole, lo spostamento dell’attenzione dalla bella signora alla cacca con cui si sarebbe lordata le scarpe costose, che è la licenza e la licenziosità del comico, questo riteneva la sua specialità ; specialità che non lo portava a niente. Sono lo scrittore perfettosono scritto non so da chi né da che… ma tanto da essere illeggibile e impubblicabile… sono un poe… – un po’– … la lettera nascosta… ma di carne… una fettina di rosbiffe così sottile da non vedersi.

In un bel pomeriggio di domenica, della prima domenica di primavera c’era un sole gentilmente caldo e tutte le altre cose che la primavera porta con sé, il gorgoglio del desiderio negli animi innamorati di qualcuno o di qualcosa, l’ebbrezza dei primi gelati, i ruzzi dei bambini ai giardinetti e le ciàcole in panchina e le mamme già con ai piedi, alcune, le prime scarpe aperte in punta, per non dire coi sandali le più decise a stabilire con l’esempio che fosse il momento della muta : insomma primavera in piena sagra e senza molti sacrifici ; Mèndich era il solo ad avere sole e sagre in suprema uggia. Rintanato in casa si sarebbe messo a contare i giorni che mancavano al ritorno per lo meno di un ottobre nuvoloso –ché ormai il settembre è solo il periodo di un’allungata estate – non fosse stato per il silenzio del condominio e l’assenza conclamata dei vicini che gli avevano messo la voglia di suonare il violino ; lo faceva in verità quasi ogni giorno, ma sì un poco e sottovoce per non molestare i coinquilini ; in quel pomeriggio in cui la luce passava per le finestre a illuminare la polvere sospesa nell’aria calda Mèndich si era messo prima a scaldare le corde e le dita poi a suonare con attenzione prima il tema da il tuo stellato soglio nel Mosè di Rossini, poi ingagliardito dalle buona riuscita, secondo lui, prese in mano la parte del solo nel primo concerto di Tchaikovskij. Un’impresa ma lo stava studiando da mesi nonostante le difficoltà ; si doveva fermare, analizzare la diteggiatura, lentamente dapprima e poi con sempre più veloce pazienza fino ad arrivare a una buona imitazione del tempo scritto. Tutto quel lavorìo tecnico lo faceva sudare ma gli dava anche una grande soddisfazione quando credeva di aver almeno intravisto il confine che separa l’esecuzione da una interpretazione. Non credeva di essere bravo ma tenace sì. Non aveva certo il dono né di sicuro il carattere e la tecnica della Jansen ma gli piaceva studiare per ottenere dei risultati : avrebbe potuto suonare in pubblico, magari con un po’ di fantasia da parte del pubblico. Era fradicio di sudore e stava cercando di doppiare senza riuscirci lo scoglio delle ultime velocissime misure prima della ripresa della parte orchestrale, quando sentì bussare alla porta.

Staccò l’arco dalle corde di colpo, molto infastidito ; forse era un altro vicino più infastidito di lui ; Mèndich rimase per alcuni istanti in attesa di una voce ancora più antipatica di quei colpi alla porta, inspiegabili peraltro, dato che tutti gli appartamenti del condominio avevano campanelli rumorosi alle porte. E allora dunque, quel bussare da opera lirica e da film americano a che pro, per dimostrare che cosa, questo gli passò per la testa quando i colpi si ripeterono e, li riconobbe, in una sequenza molto semplice e lieve : tre colpetti di ottavi, un due quarti, tre ottavi, due da… tà tà tà tàan tà tà tà tàan. L’attacco della quinta sinfonia del Beethoven. Accidenti a chiunque tu sia – mormorò torvo – e andò ad aprire. Gli apparve, ed è davvero il verbo giusto per raccontare la sorpresa che colse Méndich all’apparirgli, nella penombra del vestibolo fuori della porta, una donna, secondo lui giovane benché, anche messe di colpo al lavoro le sue competenze fisiognomiche, non riuscisse affatto a situarla entro nessun range conosciuto d’età, e secondo lui anche bella di una bellezza per essere precisi attraente, neri i capelli ornati da un tocco in forma di petalo, di un velluto o chissà ma altrettanto nero e decisamente fuori moda o, al contrario, sull’onda di una moda rinnovata che, come spesso accade, recupera i vezzi, soprattutto di classi alte e passate di moda, per renderli per così dire di dominio pubblico, popolari. La donna, non che sorridesse ma sì pareva che possedesse l’intenzione di sorridere in generale, non di preciso a lui, ma preparata sulle labbra tinte di rosso, sì ma che rosso, Chanel si sarebbe detto dicendo così tutto. Ma insomma, Il signor Méndich, sembrò fosse formulata la domanda e lo era senza l’ombra del dubbio tanto che senza attendersi la risposta la donna chiese prima se poteva entrare e poi entrò nel minuscolo soggiorno di casa Méndich. Lui restò sull’uscio, il violino nella sinistra, l’arco nella destra in un atteggiamento di abbandono e lieve sospetto

– Se è della polizia… bè si qualifichi e mostri un documento per favore …
– Macché… polizia di…rei proprio che no… anche se… il mio ruolo è più tosto… più che di sorvegliante è di vegliante… sì in effetti…
– Guardi signor…a o signorina… guardi non so come ci si rivolge oggi a una sconosciuta che non porta la fede all’anulare… insomma chi… che vuole… soprattuto che vuole da me… mi ha interrotto e… le sia chiaro che sono seccato… forse l’ho disturbata col violino e mi scuso… ma detesto i misteri… mi hanno sempre fatto ridere i segreti i massoni e i film di spionaggio…

La donna adesso sorride per davvero

– E io sono qui a chiarificare… venga si sieda

Dice la donna e batte sullo schienale dell’unica poltrona che arreda il soggiorno con un gesto cortese ma fermo. Poi afferra la sedia che vede al tavolino da lavoro di Mèndich, la sposta di fronte a lui. Con delicatezza poi gli sottrae il violino e l’arco e li posa sul tavolino ovvero sul quaderno nero aperto

– Veda di prendere con pinze quel che dico… non sono qui a minacciarla… a farle una qualche macumba… nemmeno a seduire… non proprio forse è quel che teme… la… bella non dica di no… la bella estraniera che sgattaiola dal più anziano vicino in un rush di gerontofila… né né né…
– Oh cielo…

Mèndich fa un gesto con le labbra per significare perplessità o qualcosa così

–… non avrei mai detto che in questo condominio abitasse una pazza… del resto questa specie di … travestimento da woman-… in-black… aspetti ci sono… lei sta facendo un gioco… quei giochi di ruolo con alcuni fessi qui in giro per il quartiere… lei lei lei… come si dice è una cosplayer di qualche play… ah no ecco aspetti… una caccia al tesoro… deve trovare qualcosa non guardi al mio violino… non sono il suo tesoro e poi gioiello mio… mi lasci in pace…

La donna sembra attendere con pazienza il suo momento. Mèndich non sembra nulla

– Allora via Mèndich basta preamboli e ascolti senza mettere parole… sono un’avvocata… una delle tante non creda… sono un’annunciatrice… non saprei come dire meglio avvocata…ad vocata… un angelo della morte…
– Ah…
– Dovrei dire un’angela ma… angelo… è la dizione comune delle vostre lingue latine… un’avvocata ha una forma specifica femminile perché… asessuato… ma non parliam di ciò… è difficile da capire per lei che pensa zero uno… bianconero… mortovivo… pensa di sicuro per categorie… per partizioni… le cose…

Mèndich cerca vetri su per i quali arrampicarsi ma nessuno di quelli a disposizione in casa ha la necessaria infinita misura

– Io credo… credo di… io… lei è una mia allucinazione… sto avendo un rush psicotico… non…
– Capisco benissimo il suo sconcerto e ci sono abituato voglio dire abituata è così in ogni missione… per ogni annunciazione… non creda di essere l’unico ad avere questo piccolo vantaggio… ahora guardi qua per rendersi conto…

La avvocata volge entrambi i palmi delle sue mani verso l’alto. Al centro di entrambi c’è un forellino che però non li trapassa o Mèndich da medico si sarebbe subito accorto della ferita. Il foro ha un diametro, hmm poco meno di un centimetro, sette millimetri forse e da quel forellino si sprigiona una luce sfolgorante di colore indefinibile e coerente nel tempo e nello spazio com’è quella laser, va dritta al plafone del soggiorno e un osservatore inesperto direbbe che lo trapassa

– Se non le basti posso mostrarli i miei tarsi… dei due piedi… levo i calzini se vuole vedere…

Mèndich vorrebbe dire cose tra l’ovvio e l’insensato ma non le dice

– Oh vvia non creda sono specie di esercizi di magia ma è il nostro biglietto di visita perché la nostra superiora sa bene che saremmo poco credibili come avvocate…
– La… la superiora…
– Sì la morte..
– Hmm.. la… come no…
– Esatto tutte noi siamo le sue avvocate… lei supervisiona o sovrintende o non avrebbe tempo e devo dire anche poca voglia per seguire lo sbobinarsi del filo di ognuno… mortale… e prendere decisioni ponderate nel tempo…
– Vuol dire che lei qui…
– No no no… sia tranquillo non è il momento… al contrario… il mio è un incarico informale e speciale all’istesso tempo… voglio essere maleducata… si può avere un tè le dispiace…

Mèndich non batte ciglio. Si leva dalla poltrona, si allontana fino al cucinino, accende il bollitore che è sempre pieno d’acqua, prepara la teiera

– Verde o nero…
– As you like… as you like…
– Ho poco da offrirle… un po’ di torta al cioccolato… del supermercato ma è buona… faccio un tè verde… di taiwan ottimo…
– Vada per la torta al cioccolato e il verde ottimo…

Si sente ma non si vede trafficare Mèndich nel cucinino. La donna allunga la voce

– Sa… Mèndich… un vostro scrittore… céline sa lo capì bene che la vérité… la vérité, c’est une agonie qui n’en finit pas… non è così dottore… La vérité de ce monde c’est la mort. Il faut choisir, mourir ou mentir… la condizione di incredulità che si pone in essere presso di voi… la maggioranza degli altri viventi non si oppone alla signora… le piante o i gatti ma questo è un discorso… capisco bene… parafrasando un altro vostro cocteau voi vi ammazzate per una lettera… per la lettera delle cose…

Mèndich torna con un vassoio tra le mani, due tazze e la teiera, un’altra, una cinese, apprecchiate e su un piatto appena sfornata dalla sua confezione di cellophane, una ciambella al cioccolato, due piattini e un coltello ; possa tutto sul tavolino e si accinge a servire. La donna lo osserva

– Tagliando corto… non così grossa grazie se mai ne riprendo… ecco così va bene… tagliando quindi corto o questa conversazione finirebbe con essere un verbale… di polizia… sono qui a… avvocata a proporle un semplice accordo… a deal…. dearest lei si cruccia… non ama il mestiere con cui si mantiene… lei è da quanto… una vita che è una promessa difficile da mantenere… sì non è davvero male questa tortina mi sa che ne riprenderò un fettino… lei Mèndich non ha mai saputo suonare così bene da entrare in un’orchestra modesta tra i secondi violini e il suo aspirare…. solitario y final…. alla letteratura non riesce ad andare oltre le venti righe di scritto…
– Come lo sa…
– Lo so le pare che una con le stimmate non può…

Ridacchia. Mèndich si intona a quel ridacchiare

– … allora si fa così…io posso farle scrivere da tra un’ora in poi cose belle e buone e dotte e benissimo scritte e in quantità tale che… vedrà che fatica… e questo fino alla fine dei suoi giorni…

Ma a una condizione, proseguì l’angelo, ovvero che tutto quello che Mèndich avrebbe scritto dopo quella visita sarebbe stato di proprietà letteraria della Morte che, per così dire, sarebbe stata, la Morte, l’editore.

– E l’editore si sa quel ch’egli fa… Do you think we have a deal… Mèndich…
– Scrivere fino alla fine dei… miei…
– Absolutely guaranteed…
– Niente pergamene da firmare col sangue…
– No pergamene no… paccottiglia neogotica… à rebours… tra noi basterà una stretta di mano… beh sì come i mercanti un tempo… la scotterò appena un pochino… uno zic… ma le passerà presto… andiamo su… qua la mano..

Mèndich tese la sua destra all’avvocata che gli porgeva la sua sinistra e la strinse. Per tre secondi Mèndich se la sentì trafiggere. L’avvocata lo liberò dalla stretta. Mèndich si guardò  il palmo ma non vide niente di più che un puntino nero, caldetto anzi che no ma in remissione. Dopodiché l’avvocata e Mèndich si intrattennero ancora per qualche po’. Finirono il tè e una metà della torta al cioccolato. A un certo punto l’avvocata guardò per aria un orologio immaginario, si alzò da sedere e si avviò con molta cortesia alla porta.

– Noo..ò non si disturbi faccio da sola e conosco la strada… so long… ciau

Per essere precisi : l’avvocata svanì nel vestibolo o questa fu l’impressione di Mèndich che poi, esausto e frastornato, si rilasciò nella sua grossa poltrona e in pochi istanti si appisolò un po’ come fanno le donne in travaglio nei momenti di requie. Al risveglio Mèndich andò al tavolino, sedette davanti al quaderno, prese la penna, voltò pagina e cominciò a scrivere. Passarono diverse ore, forse giorni, l’orologio compì rivoluzioni e giravolte che Mèndich non percepì, infine, gli sembrò di essere davvero arrivato a qualcosa di concreto, al guscio della cozza ; allora si fermò, si alzò, fece quattro passi con la mezza intenzione di sgranchirsi le gambe e allora, all’improvviso, si imbardò come una caravella, sentì la sua testa sprofondare in un alto mare, poi che gli si svuotava, si arenò e crollò a terra ; dopo un fiato di tempo era morto.

L’immagine di apertura è di Nigel van Wieck – Coat-check girl

Pasquale D'Ascola

Pasquale Edgardo Giuseppe D'Ascola, già insegnante al Conservatorio di Milàno della materia teatrale che in sé pare segnali l’impermanente, alla sorda anagrafe lombarda ei fu, piccino, come di stringhe e cravatta in carcere, privato dell’apostrofo (e non di rado lo chiamano accento); col tempo di questa privazione egli ha fatto radice e desinenza della propria forzata quanto desiderata eteronimìa; avere troppe origini per adattarsi a una sola è un dato, un vezzo non si escluda un male, si assomiglia a chi alla fine, più che a Racine a un Déraciné, sradicato; l’aggettivo è dolente ma non abbastanza da impedire il ritrovarsi del soggetto a suo Bell’agio proprio ‘tra monti sorgenti dall’acque ed elevate al cielo cime ineguali’, là dove non nacque Venere ma Ei fu Manzoni. Macari a motivo di ciò o, alla Cioran, con la tentazione di esistere, egli scrive; per dirla alla lombarda l’è chel lì.

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