L’ELzeMìro – Bùvoli

LE_ORE_IN_TESTA_1.45

                 Luisa Sparavier- Le ore in testa 1.45 –  Abs, filo di  ferro, feltro coll.priv.

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Cominciò col non capire quelle scritte, poi le parole dette. Con queste ultime intendere dove e quanto lontano voglia andare qualcuno, quando ti parla, è già un’impresa, dunque ascoltare ma assenti; delle prime, non tanto quelle inerpicate su per i vetri insaponati dei gialli o delle pervicaci saghe familiari di cui decifrare il perché mai, il come, la vita l’amore la morte, santo cielo; ma persino elementari verbamanent, di un sonetto, di un saggetto, di una critica della ragion pura, ebbene leggere, leggere lui leggeva ma con l’ostinata volontà del soldato maciullato che, Mi rimetto in piedi mi rimetto, grida; ma piedi più non ha. Come pecore che un cane dominasse una ad una, senza riuscire però a contenerne il gregge e questo gli scappasse da molteplici smagliature del recinto, così parentele e relazioni tra parole gli sfuggivano, a nùvoli, da buchi che egli sentiva aprirsi, richiudersi, riaprirsi nel suo cranio. Bùvoli, sintetizzò.

Benché gli fosse chiaro, alla vista e al tatto che buchi nel cranio non ne aveva, egli però si persuase che, se li immaginava, se li temeva dovevano ben esserci; mimetizzati dunque sotto la pellìna venosa e pallida che, si sa, traspira e perciò stesso non è così impermeabile come sembra, non alle idee almeno che, svaporate dal suo fumoso male, ma quale ma quale, via che volavano via e non più tornavano da dove erano scese un giorno. Decise di farsi un cappello di argilla, verde gli sembrò la miglior scelta ecologica e, asciugata che fosse l’impiastrata calotta, con quel bizzarro copricapo in capo se ne andava in giro a interrogare medici e farmacisti, stregoni e curandéri se tentare così di arginare i bùvoli sarebbe stato privo o no di effetti secondari e se mai primari e infine, Lor dottori osservino a che s’è ridotto un meschino, un rimedio un rimedio vi prego quale sia, che ponga rimedio alla bùvolazióne della sintassi, chiedeva, supplicava, si lamentava; e tutti coloro rispondevano secondo il loro interesse, convinti che, interrogandolo amabili ed osservandogli il cranio come mamme ’l chiorbìno di lor bambino, una pozione, una polvere, un palliativo, un rosario, un fumo sarebbero riusciti a vendergli. Paradossale fu che il male gli guarì da sé, gli  sembrò di snebbiarsi e che nessun bùvolo s’aprisse più e chiudesse e che nessuna sintassi più gli sfuggisse; però, quando volle dire, raccontare, compiacersi, poi, come dice il detto, gli mancarono le parole.

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Pasquale D'Ascola

Pasquale Edgardo Giuseppe D'Ascola, già insegnante al Conservatorio di Milàno della materia teatrale che in sé pare segnali l’impermanente, alla sorda anagrafe lombarda ei fu, piccino, come di stringhe e cravatta in carcere, privato dell’apostrofo (e non di rado lo chiamano accento); col tempo di questa privazione egli ha fatto radice e desinenza della propria forzata quanto desiderata eteronimìa; avere troppe origini per adattarsi a una sola è un dato, un vezzo non si escluda un male, si assomiglia a chi alla fine, più che a Racine a un Déraciné, sradicato; l’aggettivo è dolente ma non abbastanza da impedire il ritrovarsi del soggetto a suo Bell’agio proprio ‘tra monti sorgenti dall’acque ed elevate al cielo cime ineguali’, là dove non nacque Venere ma Ei fu Manzoni. Macari a motivo di ciò o, alla Cioran, con la tentazione di esistere, egli scrive; per dirla alla lombarda l’è chel lì.

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  • Biuso

    “come dice il detto, gli mancarono le parole” ma il filo del paradosso corre, si allunga, diventa un racconto sinuoso che alterna un pigro fluire a delle improvvise rapide. E parla.

    • Pasquale D’Ascola

      Orbene professore, pigro fluire e rapide che parlano. Me ne rallegro assai. Psq.

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