La teoria dei paesi vuoti – Mauro Daltin

Titolo: La teoria dei paesi vuoti. Viaggio tra i borghi abbandonati
Autore: Mauro Daltin
Data di pubbl.: 2019
Casa Editrice: Ediciclo
Genere: Diario di viaggio, Reportage, saggio
Pagine: 142
Prezzo: 14,00 €

Craco, Portis, Palcoda, Movada, Curon, Consonno, Fabbriche di Careggine, Gena Alta, Villa Epecuén, Gagnon. Sono nomi di paesi geograficamente e storicamente lontani, accomunati però da un medesimo destino di progressiva, inesorabile decadenza. Paesi che si sono svuotati fino al dissanguamento totale.

Cos’è un borgo abbandonato, se non una sospensione di regole, un’effrazione della normalità?

“C’è un tempo sfasato, fatto di un presente che occupa un abbandono per trascorrere qualche ora lontano dal mondo, per sentirsi liberi di fare e dire quello che si vuole. Una casa abbandonata, un borgo fantasma, diventa una possibilità, altrimenti interdetta. I divieti saltano in aria. I cancelli vengono divelti, le porte spalancate. Qui puoi lasciarti andare con l’amica del cuore e stamparle un bacio sulle labbra o fare confidenze a un amico d’infanzia. O rimanere solo e provare a colorare un muro in un atto di libertà che non ti sei mai concesso altrove. O urlare forte, fino a sentirti graffiare le corde vocali, per sputare fuori un dolore represso. Ho ancora questa libertà?” Il senso del prezioso lavoro di Mauro Daltin intitolato La teoria dei paesi vuoti, pubblicato dalla casa editrice Ediciclo, è appeso a questa domanda sul significato e la possibilità di essere (ancora) liberi in un mondo gravato da costrizioni visibili e invisibili. Accedere al vuoto per dimorare in un perimetro spazio-temporale di desolazione, vivere un’irripetibile esperienza di separazione radicale dalla società ipertecnologica, sostando anche per un brevissimo periodo in un altrove, consente infatti la sperimentazione di una condizione esistenziale d’angoscia, catartica e rigenerante. Lo scrittore e viaggiatore friulano ricollega la sua irrequietezza alle vibrazioni del famoso terremoto del 1976, da lui avvertite mentre era ancora nel grembo materno e radicatesi nel carattere. Daltin cerca i luoghi con ostinazione, ma non mancano scoperte occasionali, improvvise epifanie, déjà vu ed esperienze simili a sogni lucidi.

Chi sono i cercatori di abbandoni? Immaginiamo, ad esempio, una zona di montagna popolata da alberi, boschi, torrenti. Il cercatore si inerpica sui sentieri, nel tentativo di raggiungere quello che fu un borgo abitato. In prossimità delle prime case, il cercatore è accolto da un silenzio anomalo, un silenzio che sa di sottrazione. Porte si schiudono come bocche sfatte, vetri si sbriciolano sotto le scarpe. Talvolta, sparuti manipoli di anziani si arroccano in un estremo tentativo di resistenza. Più spesso non c’è nessuno. Entrare in un paese che si è arreso, disarmato dalla modernizzazione, significa alloggiare in un tempo fuor di sesto, impazzito, illogico, che scorre in parallelo rispetto al calendario ufficiale. Il cercatore entra dentro quel minuto. Le strade decenni prima vibravano di rumori e di grida umane, sulla piazza si svolgevano commerci e attività artigianali, le scuole erano transito obbligato per maestri al primo impiego. Molte frazioni giravano attorno a un piccolo centro. Le locande aprivano ai viandanti, nelle chiese si celebravano matrimoni, battesimi e funerali. I gesti si cristallizzavano in riti, i saluti riecheggiavano nomi e soprannomi. Ora tutto è finito. Nel minuto collassano passato, presente e futuro. È un salto mortale nell’indeterminatezza. Non si è da nessuna parte. “Ti si interrompe il fiato. Si sospende la circolazione del sangue. Mi chiedo se è compito mio, se spetta proprio a me far riprendere il tempo, se sia io il predestinato, l’eletto deputato a far rotolare di nuovo le cose in avanti”.

Ogni paese regredisce a modo suo e secondo una tabella di marcia variabile. I sintomi del cedimento preparano al tracollo. L’esodo degli uomini lascia in eredità una spettrale presenza. Vi sono paesi sprofondati nell’incuria perché esiliati da ogni ipotesi di modernità ed esclusi dalle vie di comunicazione, altri marchiati ab origine dalla disgrazia a causa di scellerati calcoli imprenditoriali, altri ancora incappati, loro malgrado, nella tela del progresso tecnologico e pertanto spazzati via dalla cartina geografica. È il caso di quei borghi affondati sotto metri d’acqua per una diga che prima non c’era. L’uomo opera, l’uomo cancella. Poi, vi sono i casi in cui la natura scatenata ha avuto il sopravvento. Una frana, un’alluvione, un terremoto. Gli uomini, davanti allo sfregio, hanno infine gettato la spugna e sono emigrati lontano, verso città luccicanti di promesse. Mauro Daltin si affida alle categorie dantesche, inserendo i paesi in cinque gironi, rispettivamente dei fragili, dei folli, degli annegati, degli esclusi e degli inquieti. Le tipologie del disastro sono molteplici: cittadelle industriali abbattute dalle trasformazioni economiche, località a vocazione turistica disintegrate dalla potenza delle acque marine, agiati quartieri investiti in pieno da rivoluzioni politiche e ridotti a fantasmi, paesini messi in ginocchio dalla furia dei fiumi o placidamente inghiottiti da laghi artificiali per i secoli a venire, comunità brutalmente deturpate dalla ferocia nazista, orrori sepolti sotto veli di pudore tanto simili a rimozioni, eventualità, queste ultime, ben narrate dallo scrittore Martin Pollack in Paesaggi contaminati.

Perché un campanile affiorante dalla superficie di un lago o un bancone da bar arrugginito sono immagini che ci scuotono nel profondo? Su quale argomento del cuore o della mente ci interpella una visione di macerie? Nell’incredibile ricostruzione della vicenda della ‘California’, angolo ora inabitato delle Dolomiti bellunesi, nella valle del Mis cara a Dino Buzzati, Daltin insegue i ricordi di sua madre che là si recava da giovane a ballare. Il sogno febbrile dell’oro e la certezza del cinabro, la roccia da cui si estrae il mercurio, impressero tra anni Cinquanta e Sessanta, insieme ai fasti di un’effimera ricchezza, il segno della devastazione ambientale. Poi, nel 1966, “cadde una quantità di pioggia mai vista prima, un’apocalisse per la gente del posto”, da allora “nessuno ebbe più la forza di riprovarci”. Fine della ‘California’. “Non si viene qui per vedere qualcosa”, chiosa l’autore al termine del capitolo, “si viene qui spinti dalla tenerezza del mondo perduto dei nostri padri e delle nostre madri. Per vedere, forse, la fine di una generazione”.

Daltin descrive le voragini incontrate nel suo viaggiare come “un rotolare verso il vuoto”. Diario e reportage in prima persona, La teoria dei paesi vuoti è soprattutto una meditazione del tempo offeso, una riflessione politica sui luoghi marginali. “Qui, in Italia, dal dopoguerra è stata fatta una scelta precisa. E dopo gli anni Ottanta questa scelta è divenuta definitiva. Abbiamo deciso che avremmo vissuto in un modo differente dai nostri nonni e bisnonni”. Speculazione edilizia e devastazione del territorio sono fenomeni che hanno caratterizzato negli ultimi decenni la gestione della cosa pubblica. Le zone poco redditizie sono state avviate al declino. Denaro e potere si sono spostati altrove. Le new towns, spuntate nell’Italia centrale dopo i terremoti, esemplificano l’ignoranza progettuale e la malafede delle classi dirigenti del periodo storico che viviamo. È vero, anche altre nazioni sono coinvolte in questa inchiesta sentimentale, la Spagna dei pueblos dimenticati, l’isola di Cipro tagliata in due da un confine assurdo, il Canada delle miniere di ferro aperte e chiuse nel giro di una notte, l’Argentina con la sua pazzesca atlantide costiera, l’America delle terre arroventate e liquefatte, il Giappone post-tsunami, la Francia custode della memoria di Oradour-sur-Glane, eppure è all’Italia che l’autore ritorna, in chiusura di volume. “E dopo decenni di svuotamento e abbandono, dopo anni di illusioni, è forse arrivato il momento di tentare di ritrovare un centro, di riposizionarsi, di ripensare tutto, e per farlo si deve fare della periferia un’alternativa”.

Non è uno sterile appello alla nostalgia, non è un inno innalzato alla resistenza solitaria. Daltin esorta ad un rinnovato impegno civile, un percorso duro, difficile, eppure necessario, se vogliamo avere un futuro.“Riconoscere la rovina come un elemento da considerare, fare i conti con le macerie come fare i conti con le proprie ferite, i propri fallimenti. Sovrapporre continuamente la topografia del paesaggio alla nostra topografia interiore, intima, dolorosa”. Essere sinceri con noi stessi, osservare il volto degli esclusi, difendere i princìpi di solidarietà e di fratellanza, riprendere la prassi virtuosa dello studio, del pensiero critico, ridisegnare gli spazi, abitare dinamicamente il presente, inventare modelli e soluzioni per affrontare senza paura i cambiamenti epocali che ci attendono: questa è la rivoluzione umana e collettiva da intraprendere.

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Salentino nato "per errore" a Como (anche per ammissione di chi lo conosce), si laurea in Filosofia a Milano, con una tesi sul concetto di guerra umanitaria. Vive a Bari con Mariluna. Adora il Mediterraneo, ama Lecce, Parigi e Roma. Sue passioni, a parte la buona tavola, sono la letteratura, il cinema, il teatro e la musica. Un tempo, troppo lontano, anche la politica. Suo obiettivo è difendere, e diffondere, la pratica della buona lettura. Recensisce i libri meritevoli di essere considerati tali, quelli che diventano Letteratura, con la L maiuscola, e che gli lasciano un segno. Alessandro scrive con regolarità su Zona di Disagio, il blog del poeta e critico Nicola Vacca, collabora con la rivista Satisfiction, anima il blog di economia e di politica Capethicalism, e scrive di serie TV su Stanze di Cinema.

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