
Autore: Robeta de Falco
Casa Editrice: Sperling & Kupfer
Genere: giallo
Abbiamo intervistato Roberta de Falco autrice di “Il tempo non cancella” terza avventura del commissario triestino Benussi e della sua squadra. In questo libro come negli altri due precedenti la scrittrice usa la trama gialla come pretesto per squarciare il velo sui drammi del nostro passato che lasciano spesso ancora cicatrici sul nostro presente.
Credo che nei suoi romanzi la trama gialla sia un pretesto per far riflettere il lettore sulla società in cui vive, mi può confermare questa mia idea?
E’ proprio così. Il giallo è un genere che permette di rendere esplicito, nella struttura, quello che è sempre stato alla base di ogni romanzo, vale a dire la suspence, il voler andare a vedere come va a finire una storia. Nel mio caso, è un pretesto in più per poter affrontare un tema che mi è molto caro e che è appunto il nostro rapporto, spesso smemorato, con la Storia. Se non sappiamo da dove veniamo, è molto difficile riuscire ad affrontare il presente con la lucidità e la consapevolezza necessaria che ci spinga ad essere protagonisti, nel nostro piccolo, di un cambiamento.
Il tema delle ideologie che rendono cieco ed incapace l’uomo di ragionare ricorre spesso nel suo libro anche con immagini molto vive come quello della navigazione “in una corrente impetuosa”. Crede che il compito dello scrittore possa ancora oggi servire per ricordare all’uomo gli errori del passato?
Almeno questo è il compito che mi sono assunta io, iniziando la serie del commissario Benussi. Quello di utilizzare un fatto cruento di oggi per rivelare i suoi legami con altri fatti traumatici del passato. Trieste, per questo scopo, è la città perfetta, perché è al confine con tante realtà che hanno sofferto enormemente per drammi provocati dagli orrori del passato. Nel primo caso, Nessuno è innocente, la storia che unisce passato e presente ha come fulcro una villa sottratta con l’inganno a una famiglia di ebrei nel 1944. Nel secondo, Bei tempi per gente cattiva, è la recente guerra fratricida dei Balcani a far da sfondo a un dramma che si conclude ai giorni nostri.
Il titolo del suo libro “Il tempo non cancella” sembra avere una connotazione negativa, quasi come se l’uomo fosse destinato a vivere con i fantasmi del passato e non riconciliarsi mai con le proprie ferite. Qual è la sua concezione del rapporto con gli eventi del nostro passato?
No, non sono così pessimista. Penso che si possa invece riconciliarsi con le ferite della storia, a patto di riconoscere dentro di sé una volontà di abbattere i muri interiori. ‘Il tempo non cancella le ferite, è vero,’ come dice nel finale Ivo Radek, ‘ma se vuole, può riportarci indietro negli anni, farci rivivere i pochi, rarissimi, momenti in cui ci siamo sentiti davvero felici di esistere.’
Nel libro sembra emergere, attraverso la voce di Rhoda l’agente letterario, la sua visione del mercato letterario. Come giudica da scrittrice il contrasto, molto netto soprattutto in Italia, fra un numero sempre più esiguo di lettori ed un aumento di aspiranti scrittori?
E’ un po’ sempre stato così. Il numero delle persone che hanno un libro nel cassetto è da sempre stato più numeroso di quello che amano leggere. Questo dipende dal bisogno dell’uomo di lasciare una traccia del suo passaggio sulla terra, di sentirsi unico, di farsi ammirare da chi non lo conosce. Detto ciò, quello che è successo in questi anni è andato un po’ al di là dell’endemica vanità creativa degli esseri umani. Il fenomeno dei best seller ha creato enormi aspettative, anche finanziarie, negli aspiranti scrittori, trasformando un lavoro faticoso, profondo e solitario in una sorta di assalto all’OK Korral, che certo non aiuta a distinguere ciò che vale – e può durare – da quello destinato a consumarsi in poche settimane. Troppa offerta e soprattutto troppo ricambio in libreria è destinato solo a confondere e scoraggiare chi, nei libri, cerca qualcosa che, oltre che intrattenerlo, sia anche capace di soprenderlo ed emozionarlo.
Un tema centrale del libro sembra essere l’invidia. All’inizio del suo libro la moglie dello scrittore rende con una frase il concetto “L’invidia è una brutta bestia, caro Kuntz”. Con questa frase voleva forse sintetizzare come spesso l’uomo di fronte ai propri fallimenti non si metta in gioco, ma reagisca spesso manifestando invidia, rabbia e talvolta violenza?
E’ la natura degli esseri viventi, quello di diffidare degli altri, vedendoli solo come dei potenziali nemici. Lo fanno anche gli animali. Il primo istinto di difesa è quello di denigrare e aggredire i più fortunati o i più furbi di noi. Sono pochi quelli disposti a mettersi in gioco e a capire che, dietro ad ogni fallimento, si nasconde spesso anche la possibilità di un riscatto, a patto di saper leggere dentro di noi le vere ragioni del fallimento, che spesso dipendono, come nel nostro caso, dal nostro carattere o dalle nostre aspettative troppo alte.
Il tema del razzismo non è centrale, ma aleggia nel libro come una presenza oscura. Benussi , il commissario presente nei suoi libri, vede la parte più visibile del fenomeno, quella che si manifesta nello sfruttamento dei profughi che vengono da paesi martoriati dalla guerra, ma non si rende conto del suo solito atteggiamento canzonatorio verso il suo sottoposto che chiama ironicamente “Napoli” per le sue origini meridionali e del disprezzo verso il compagno della figlia che chiama “Tyson” per il colore della sua pelle. Questa sua descrizione degli atteggiamenti del commissario hanno l’intenzione di far riflettere il lettore sui suoi comportamenti quotidiani?
In realtà, il ‘razzismo’ di Benussi vuole fare sorridere il lettore. Fa parte del suo carattere un po’ superficiale. La parte invece più seria del libro, è vero, vuole far riflettere su tutto quello che sta dietro a delle realtà che possono disturbare la nostra quiete di occidentali viziati e fortunati. Se proviamo per un attimo a metterci nei panni di un ragazzo che è costretto a lasciare la sua terra per fame o per guerra e che deve attraversare delle vere atrocità per arrivare in un paese che non lo vuole, la superficialità con cui tutti noi abbiamo la risposta pronta alle continue emergenze della povertà dovrebbe trasformarsi in compassione.
All’inizio del libro cita una poesia di Rainer Maria Rilke in cui la parola “terra” è ripetuta. Questo riferimento può esser visto come una sua anticipazione del rapporto contrastato dell’uomo con la sua terra d’origine soprattutto quando è costretto a lasciarla?
Proprio così. Rilke è il cantore per eccellenza dell’esilio. C’è una citazione di Rilke in ogni mio libro, proprio perché Rilke conosce la profondità della nostalgia e la fragilità di un ritorno al passato che non può più a compiersi.
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