Scrittore e direttore della rivista letteraria Euterpe. Sono solo due delle attività di Lorenzo Spurio, giovane marchigiano, impegnato in prima persona nel mondo letterario sommerso, quell’Universo difficile e controverso che la cultura ufficiale tiene ai margini.
Lorenzo, partiamo subito da “La cucina arancione” la tua ultima raccolta di racconti che mette a nudo le “patologie” della società post – moderna. Come scrittore, tu dedichi molto alla psicologia dei personaggi, al loro difficile rapporto con la modernità?
Sicuramente la componente psicologica dei personaggi e l’interpretazione psicologica delle azioni nei mie racconti diviene una elemento importante che non è possibile scindere dagli altri. Portare la psicologia nei racconti con ad esempio le manifestazioni di devianze tanto sessuali quanto d’altro tipo, di fobie e di anancasmi è il mio modo per sondare l’universo sociale in cui questi personaggi sono immersi per cercare di evidenziare i rapporti che si istaurano tra il singolo (spesso emarginato o auto-esclusosi dal mondo) e gli altri (spesso indifferenti o semplicemente incapaci di comprendere l’altro). Chiaramente è la famiglia e la società tutta ad essere presa nel mirino evitando l’applicazione di giudizi morali.
Non trovi che in questa società “ipocondriaca”, in cui ognuno traccia nell’altro l’origine del proprio “male di vivere”, tutti rischiamo di cadere nel baratro della follia?
Il concetto di follia è molto interessante ed è stato affrontato nel corso del tempo da grandi studiosi. Mi viene in mente Erasmo da Rotterdam che, pure, non mancava di vedere nella follia il germe della autenticità e della creatività.
Bukowski, pur maledetto come spesso viene ricordato, è stato secondo me uno dei più fedeli cronisti dell’America del secondo dopo guerra e nelle sue Storie di ordinaria follia, in realtà troviamo la normalità di una vita vissuta forse un po’ agli eccessi, in bagordi e con un piglio egoistico e molto volgare, ma in fondo chi è in grado di dire che la follia di Bukowski in realtà non è che una variante della normalità?
Trovo che l’uomo abbia bisogno di identificare sempre in un nome (una patologia) in una persona diversa da lui (magari un barbone o semplicemente una persona che ci guarda in maniera preoccupante) in manifestazioni di stranezza e pericolosità. L’uomo, quale animale sociale, è per sua natura protettivo di sé e del suo mondo e laddove si presenta qualcosa che non conosce, che lo spaventa e che mette in discussione, anche se di poco, la sua realtà, allora costituzionalmente opera la differenziazione tra sé e l’altro, con superbia e timore, creando etichette, demonizzando l’altro e istituendo in questa maniera il germe della violenza.
Vivere nel sommerso, stare a contatto con autori “sconosciuti”, rimanere ai margini della cultura ufficiale e blasonata, tutto ciò che giudizio ti fa dare sul mondo letterario odierno?
La domanda è molto bella e devo dire che per affrontare questo argomento bisognerebbe scrivere un saggio intero (che forse nessuno leggerà mai). Parto da quelli che tu nomini come “autori sconosciuti” ossia da quel marasma di scrittori e poeti (non necessariamente giovanissimi) che amano la scrittura, il racconto o la poesia e che gestiscono blog, scrivono su riviste e pubblicano i loro libri. Il loro impegno (una parte di loro perché ci sono molti che rincorrono un fine meramente economico-commerciale, che non raggiungono) è invidiabile poiché credono fortemente nel valore letterario e terapeutico della scrittura e ciò, anche se i loro libri non li troveremmo mai nelle librerie delle nostre città, me li fa considerare autori veri e propri, a cui va tutto il rispetto e la fiducia affinché il loro sogno di poter “sfondare” ed ampliare il loro target di lettori si realizzi.
La cultura ufficiale e blasonata è una pseudo-cultura che consegna al pubblico il prodotto commerciale più vendibile del momento (sia una saga erotica in tre mastodontici volumi, sia il diario di un calciatore o la biografia dei primi cinquanta anni di una presentatrice mondana e lagnosa che tutti gli italiani odiano e che poi trovano ovunque).
Quella non è cultura. Anche se si manifesta attraverso il prodotto finale del libro, essa non ha diritto a rientrare all’interno di quella cultura che amplia il sapere, che ci fa conoscere qualcosa, che ci arricchisce o ci stimola ad ulteriori ricerche. Per questo motivo non è letteratura, ma semplicemente bene di consumo che, come ogni bene di consumo, si compra, si usa, poi si consuma e marcisce e nel tempo non ha più valore e risonanza.
Completamente opposto è invece il processo di un testo letterario.
Certi autori, esordienti o meno, che valgono veramente perché mettono non solo l’amore ma la loro professionalità nelle opere che scrivono, meriterebbero certo di più. La grave situazione economica europea e dunque anche la crisi dell’editoria non agevola poi molto, anche se non sono il tipo che spiega un fenomeno annoso (questo problema dei giovani e di coloro che hanno competenza e che non riescono a giungere ai grandi marchi editoriali è più che ventennale) chiamando in causa semplicemente la crisi, perché è proprio una mentalità nostrana che trovo gretta, infertile e votata all’esasperante utilitarismo che gratifica il soldo a discapito del valore effettivo della cultura.
C’è da sperare che qualcosa cambi in meglio, allora, ma finché la speranza rimane parola scritta sulla carta e non divenga una necessità di coloro che effettivamente possono contribuire a cambiare la situazione, allora essa sarà sinonimo di utopia.
Perché così tanta attenzione verso il post – modernismo?
Credo che chi scrive nel nostro periodo storico e lo fa soprattutto dal punto di vista critico, è inimmaginabile che non si affezioni a certi correnti letterarie che hanno plasmato e determinato la letteratura non solo italiana, ma internazionale. Ricordo che al primo anno di università veniva proposto nel corso di letteratura inglese un programma all’interno del Modernismo inglese che allora non sapevo neppure che cosa fosse. Con un professore simpatico e ridolino conobbi Joyce, la Woolf, Yeats, Owen e tanti altri che avevano permesso una fase di splendore (tanto in poesia che in narrativa) della letteratura inglese. Si tratta di autori importantissimi non solo per la cultura anglofona, ma per il mondo tutto: Svevo forse non sarebbe completamente come lo conosciamo se non ci fosse stato Joyce ad esempio.
Questo per dire che è bisogno congenito del critico quello di informarsi e alimentare le sue curiosità. Per ritornare in maniera particolare al post-modernismo (una parte della mia seconda tesi universitaria affronta il post-modernismo in letteratura partendo dal celebre saggio di F. Jameson) secondo alcuni critici e studiosi ci troviamo già fuori da questa categoria che in molti considerano chiusa con uno dei fenomeni più tragici del secolo scorso: l’11 settembre 2001. Ci troveremmo, ora, nel post-post-moderno, una definizione ambigua e pletorica che sembra non essere in grado di caratterizzare visivamente la distanza dal precedente post-moderno anche perché molti dei caratteri del post-moderno hanno trovato il loro sfilacciamento nel post-post-moderno.
Mi affascinano le manifestazioni temporali del pensiero dell’uomo anche se è chiaro che non è più possibile parlare di avanguardie, correnti, cenacoli e manifesti letterari perché l’artista ormai non vive più la sua singolarità sposandola alla comunità costituendo una accademia, piuttosto interagisce con gli altri artisti (spesso diametralmente opposti da lui) ricavandone ispirazione, beneficio e producendo lavori impensabili fino a trenta anni fa.
Il post-modernismo non è come in molti tendono a parlarne una avanguardia dell’età presente né una corrente della nuova modernità, ma piuttosto una categoria logica che si può essere disposti ad accettare o meno.
La tua speranza per il futuro?
Da uomo sensibile a ciò che accade nelle periferie del mondo, mi sento di dire che la speranza più grande sarebbe quella che l’uomo prendesse consapevolezza della sua condizione di soggetto razionale e mettesse fine alle prevaricazioni (tanto verbali che fisiche) che commette con regolarità e che producono violenza, sterminio, strage. Chiaramente è impossibile ipotizzare un mondo di pace perché abbiamo sempre sentito parlare di violenze e soprusi, ma se la parola è stata coniata credo che debba avere applicazione effettiva nel mondo e non trovarsi solamente negli accorati discorsi dei prelati.
I giovani poi, meritano di più e sono loro oggi a fare le spese indirettamente delle scelte economico-finanziare sbagliate e di regimi di austerità che ne fiaccano la difficile condizione economica in un paese come il nostro dove la democrazia e la giustizia sono sempre state figlie dimenticate del malaffare, del nepotismo, della burocrazia lenta e infame e della politica corrotta.
I tuoi progetti futuri?
Ce ne sono vari in pista e tutti molto interessanti. Come critico sto lavorando a una serie di saggi sul teatro drammatico di Federico García Lorca dove il filo rosso è la concezione di onore nella società spagnola del secolo scorso. Parallelamente sto lavorando a una antologia di poeti marchigiani e, anche se nel tempo sono già state fatte simili iniziative editoriali, la mia si caratterizzerà per un criterio di selezione degli autori differente: non compariranno solo i soliti noti in Regione, ma anche poeti che nel tempo sono stati tralasciati o completamente dimenticati e chiaramente le nuove voci poetiche. Una antologia basata su un criterio di democraticità, dunque, e non di aristocrazia come invece ne esistono già molte.
Non da ultimo segnalo il mio primo esperimento nella poesia, un libro di liriche di tematica civile che uscirà prima della fine dell’anno.
Continuano altresì gli impegni nelle attività di giuria di due Premi da me fondati assieme all’appoggio e alla convinzione di amici e scrittori: il Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi” (di cui sono Presidente e giunto alla terza edizione) e il Premio di Letteratura “Ponte Vecchio” (di cui sono Presidente di Giuria e la scrittrice Marzia Carocci è Presidente del Premio).
Ti dico una parola: Giardino. Cosa mi rispondi?
Al di là del fatto che è l’oggetto di un libro di critica letteraria scritto qualche anno fa, ti dico che il giardino è uno spazio che evoca nella mia mente immagini molto diverse, complici le letture e i film visionati nel tempo.
Quale spazio di natura ri-creata esso è chiaramente una produzione dell’uomo che opera su una porzione di terra delimitando, costruendo recinzioni e piantando ciò che desidera. Il giardino principalmente è volto a perseguire un fine estetico e allora mi vengono in mente piante da fiori e siepi tagliate in maniera molto ordinata. L’orto, invece, è collegato direttamente alla produzione alimentare di frutta e verdura.
Molti scrittori si sono occupati di giardino e alcuni anche di giardinaggio: si pensi a Virginia Woolf, Vita Sackville West e anche Emily Dickinson. Io che posseggo un modesto giardino che in realtà è prevalentemente un orto dove trovano spazio piante aromatiche, peperoncini, capperi e un fico, quando me ne occupo mi sento un po’ di contribuire alla creazione e alla maturazione di qualcosa, un po’ come avviene quando scrivo e poi nasce un racconto o addirittura un libro.
Il giardino è un luogo di pace e di tranquillità, magari addirittura di ozio, nel quale il colloquio dell’uomo con la natura può trovare una dimensione più ravvicinata.
Un saluto a Gli amanti dei libri.
Grazie per questa intervista e per le domande molto interessanti!