Per Elisabetta Bucciarelli il Festivaletteratura di Mantova ha rappresentato una prestigiosa cornice in cui presentare il suo ultimo romanzo, “La resistenza del maschio”. Narratrice e drammaturga, insegnante di scrittura creativa, sceneggiatrice per la radio e per la televisione, autrice di format televisivi: nel suo curriculum non si fa mancare niente, compreso un Premio Scerbanenco nel 2010 con “Ti voglio credere”. La incontriamo a due passi dalla libreria del Festival in piazza Sordello, tra un incontro e l’altro a cui assiste da spettatrice dopo una giornata vissuta da protagonista.
Il tuo ultimo romanzo, “La resistenza del maschio”, è stato presentato in anteprima nazionale proprio qui al Festivaletteratura. Hai già avuto modo di ricevere qualche feedback?
Si ho già avuto alcuni riscontri, anche perché a Mantova il libro era disponibile in anteprima già dal primo giorno del Festival, quindi mi sono arrivati alcuni commenti tramite Twitter e Facebook. La cosa che mi ha colpito molto è stato ricevere dei feedback da persone che non sono miei lettori abituali, forse anche perché è molto diverso da quello che ho scritto in passato.
Al Festivaletteratura sei stata protagonista nella doppia veste di ospite e di presentatrice, che tipo di esperienze sono state?
Ho presentato il mio libro in due occasioni molto diverse tra di loro: la prima è stata in Università in un incontro doppio con Paolo Colagrande dal titolo “Scrittura maschile e scrittura femminile”, in un mbiente a cui sono molto legata ma anche anticonvenzionale a Mantova, c’erano molti ragazzi ed è stato particolarmente interessante perché io e Paolo siamo persone molto diverse tra loro, c’entravamo entrambi col titolo solo perché eravamo un uomo e una donna. Paolo essendo in corsa per il Premio Campiello è già abituato a parlare del suo libro, per me invece era la prima volta in assoluto che presentavo “La resistenza del maschio” ed è sempre un momento difficile per me, perché sono ancora dentro la scrittura e non ho riscontri se non quelli di parenti e amici, non ho idea di cosa sia stato percepito del libro.
Il secondo incontro in cui ho fatto invece da conduttrice era incentrato su quattro figure femminili dal Trecento al Seicento particolarmente significative, e insieme a me c’erano Lella Costa, con il suo modo ironico e comico di esprimersi ma attraverso il quale da un sacco di informazioni e numeri, e Alessandra Schiavon, vicedirettrice dell’Archivio di Stato di Venezia che ha ricostruito questi quattro profili importantissimi per come hanno fronteggiato ai loro tempi le convenzioni sociali e le dinamiche di un mondo allora tutto maschile. Ho dovuto trovare un equilibrio tra risata e serietà di fronte a una platea gremita, è stato veramente emozionante.
A proposito di donne che si confrontano con ambienti maschili: le scrittrici trovano difficoltà a farsi spazio nel mondo editoriale italiano? È un ambiente prettamente maschile o c’è posto per tutti?
Premesso che è difficile farsi spazio per tutti nell’ambiente della scrittura, quello che posso dire è che per quanto ho potuto osservare la determinazione a crearsi questo spazio è la chiave vincente. Quando ho iniziato a scrivere, e parliamo di dodici-tredici anni fa, c’erano pochissimi nomi femminili, ad esempio Nicoletta Vallorani o la Grimaldi, se ci penso un po’ forse arrivo a sei ma non di più, era un ambiente prettamente maschile: la difficoltà è stata proporre qualcosa che non fosse la scopiazzatura di qualcun altro, proponendo i temi che mi stavano a cuore. C’è stata sicuramente una fatica a farmi leggere, ma la volontà di farlo mi ha comunque portata al mio traguardo senza avere conoscenze nell’ambiente: ho pubblicato subito il mio primo romanzo e tutti i libri che ho scritto hanno trovato sempre un editore, quindi il messaggio che mi sento di lanciare è che si può fare.
Un altro aspetto che bisogna valutare secondo me è il tipo di scrittura: molto spesso la casa editrice di fronte a un romanzo non sa come classificarlo, e questo crea ulteriori difficoltà alla pubblicazione, ma questo vale sia per i maschi che per le femmine.
Parliamo di personaggi: i tuoi primi romanzi sono stati soprannominati “la serie di Maria Dolores Vergani”, e non è raro trovare autori gialli che sviluppano una serie legata ad un personaggio, pensiamo ad esempio all’Ispettore Coliandro di Lucarelli oltre ovviamente al Montalbano di Camilleri. È un genere che facilita più di altri lo sviluppo di una serialità?
È una cosa che non mi avevano mai chiesto, ci rifletto ora per la prima volta: non saprei onestamente, io ho pensato anche di serializzare personaggi non gialli. Maria Dolores Vergani è un personaggio seriale ma che cambia, si evolve attraverso le esperienze che vive: e costringe me a confrontarmi con alcuni temi legati al cambiamento che sono quelli che mi affascinano di più. Il fatto che la Vergani sia un’ispettrice di polizia mi da un vantaggio: lei senza “sporcarsi” e senza scendere a compromessi è “autorizzata” a entrare in tutti gli ambienti del male, delle rabbie da gestire, che è quello che volevo raccontare. Credo quindi che sia più semplice portare avanti un personaggio seriale nel giallo perché garantisce un filo logico, una certa coerenza che è poi quella professionale.
La Vergani è accompagnata nelle sue indagini da una squadra molto particolare: un fotografo, un musicista, un pittore. Hai scritto per la televisione, per il teatro, per la radio: tutte queste esperienze artistiche hanno influenzato in qualche modo la creazione di questi personaggi?
Decisamente sì, io scrivo di quello che so, altrimenti mi documento, secondo me il mestiere dello scrittore è un po’ uno specchio di se stessi e scrivere comporta un grande lavoro anche sulla propria persona. In più trovo che gli unici punti di vista originali ce li può dare l’arte nelle sue varie declinazioni: musica, pittura, fotografia, e anche la scrittura. Perciò all’inizio ho messo insieme questa squadra pensando a un gioco per il lettore, ognuno di loro vede la vittima da un punto di vista diverso e sta a chi legge mettere insieme i pezzi e comporre il quadro completo. Dopodiché ho avuto una specie di deriva e ho deciso di confrontarmi con la verosimiglianza, perciò ho mandato la squadra “in pensione” ed è rimasta solo la Vergani, che ha iniziato a indagare al millimetro: questo ha comportato anche per me un rimettermi in discussione e rispettare nuove regole, è stata una nuova sfida che mi ha fatto vincere il Premio Scerbanenco. È un po’ il mio “guaio”: ogni volta che credo di aver trovato la chiave sento il bisogno di aprire una nuova porta, devo rimettermi in gioco, altrimenti non mi diverto più e non sento più la necessità di scrivere. È chiaro che questo comporta una crisi nei lettori abituali, perché in ogni nuovo romanzo magari cercano qualcosa dei precedenti ma non lo trovano, che sia un personaggio piuttosto che uno stile di scrittura, e rimane un po’ spiazzato, ma è un percorso di crescita che condividiamo.