
Autore: Kampusch Natascha
Data di pubbl.: 2011
Casa Editrice: Bompiani
Genere: Attualità, Autobiografia
Pagine: 295
Prezzo: 17.50
Un fatto di cronaca di qualche anno fa che ci ha sorpreso ed inorridito: il 23 agosto del 2006 una ragazza austriaca riesce a fuggire dal suo rapitore e a ritrovare la libertà; dal suo sequestro sono trascorsi ben otto lunghi anni. Quasi impossibile a credersi, 3096 giorni nelle mani di un aguzzino e una adolescenza negata. Sequestrata mentre andava a scuola quando era una bambina di dieci anni, Natascha Kampusch è stata la vittima del rapimento più lungo della storia recente.
Cosa può avere vissuto, provato, pensato? Chi era il suo folle rapitore? Perché un gesto così assurdo e inspiegabile? Molte sono le domande che affollano le nostre menti di fronte ad una storia così sconvolgente. Prova a dare le sue risposte la protagonista e a raccontarci con estrema lucidità i suoi terribili 3096 giorni di prigionia.
Natascha appartiene ad una famiglia di ceto medio-basso della periferia di Vienna. La sua è un’infanzia non facile: due genitori separati e litigiosi, una madre provata dalla vita e spesso anaffettiva, un padre troppo stanco e spesso ubriaco, un’autostima minata nel profondo la sua ed un disagio che si esprime nella non accettazione del proprio aspetto fisico ed in una imbarazzante enuresi notturna. Natascha è una bambina alla quale è stata sottratta la sicurezza in sé stessa e che vuole riprendersela con un piccolo grande gesto di indipendenza: andare a scuola da sola. Un grande passo per lei, la fine della vecchia vita e l’inizio di una nuova. E’ così che tragicamente accade, e da quel mattino di marzo del 1998 per lei nulla ritorna più come prima.
Aprii la porta che dava sulle scale e uscii.[…] avevo in testa la frase che mia madre mi aveva ripetuto dozzine di volte: “Non dobbiamo mai separarci arrabbiati. Non si sa, infatti, se ci rivedremo” Mia madre si infuriava, era impulsiva e spesso le scappava la mano. Ma quando dovevamo salutarci era sempre molto affettuosa. Dovevo veramente andarmene senza dirle una parola? Mi voltai, ma poi, invece prevalse il sentimento di delusione che aveva lasciato in me l’episodio della sera prima. Non le avrei più dato un bacio e l’avrei punita con il mio silenzio. E poi: cosa poteva mai succedere?”
Un furgone bianco dai vetri oscurati la porta lontano dalla sua casa, dai suoi affetti, dalla sua vita beffardamente senza nemmeno l’ultimo saluto e l’ultimo bacio della mamma.
Una cella, appositamente preparata per lei nel sotterraneo di un garage di una villetta fuori Vienna, la attende. Un luogo angusto di cinque metri quadrati e due di altezza, murato in tutte le pareti, senza finestra e con l’unica aria portata da un piccolo estrattore sempre in funzione che emette un rumore sinistro e insopportabile, diventa la sua nuova casa. Lì soffre di tutto: di freddo, di fame, di tremendo isolamento, di buio, ma anche di luce perennemente accesa (si usa questo sistema di tortura nelle polizie di tutto il mondo).
Il suo aguzzino la considera un animale, un oggetto, una schiava, ma dentro la mente malata e contorta di quest’uomo si fa strada anche la perversa illusione di avere una compagna di vita. E’ così che Natascha viene portata in casa dove viene costretta a pulire e a cucinare, ma anche a dormire legata a quest’uomo per placare il disperato senso di vuoto del suo carnefice. Wolfgang Priklopil le concede da sorvegliata speciale anche una passeggiata nel giardino di casa, un bagno nella piscina dei vicini, lo shopping in un centro commerciale, una gita sulla neve. Perché Natascha non scappa e non coglie nessuna occasione di fuga? Perché la sua prigione interiore ha mura ancora più spesse della sua prigione fisica. Il criminale le ha tolto tutto, l’ha umiliata, l’ha sottoposta ad un’indicibile vessazione psicologica, ha instillato nel suo animo di fanciulla la paura e la diffidenza verso il mondo; un mondo che appare troppo grande, sconosciuto e minaccioso per essere affrontato. Natascha non ha più un’identità, Natascha non esiste.
Il suo aguzzino questo lo sa, sa anche che le loro due vite sono indissolubilmente legate e che lui è ormai schiavo della sua creatura …allora deve avere capito definitivamente che non solo aveva legato la mia vita alla sua, bensì anche la sua vita alla mia. E che ogni tentativo di sciogliere questa catena sarebbe finito con la morte di uno dei due.
E’ così che si conclude questa tragica vicenda. Il mostro si toglie la vita gettandosi sotto ad un treno quando la sua creatura riesce a fuggire. E prima di compiere il passo della fuga le istantanee che scorrono nella mente di Natascha, insieme all’immagine ed al sorriso della madre, sono il suo corpo morto e con esso il corpo del suo rapitore. In un solo attimo la morte e il richiamo alla vita.
Quello che sorprende nella lettura di questo libro, al di là delle indicibili atrocità subite dalla vittima, assurde e pesanti come macigni persino a leggersi, è sicuramente la lucidità e l’attenta analisi che questa fa delle modalità psicologiche messe in atto, più o meno volontariamente, per sopportare l’insopportabile.
Accettai ciò che era successo e invece di disperarmi e di lottare indignata contro quella nuova situazione, mi adattai […] intuii istintivamente che dovevo accettare la situazione, se volevo superare una notte infinita in quella cantina.
L’adattamento istintivo dei bambini al nuovo salva Natascha.
L’unico essere umano che questa bambina vedrà fino alla sua età adulta è il suo rapitore, l’unico che può nutrirla, toccarla, ascoltarla, parlarle. Come il cane che non può mordere la mano di chi lo nutre, Natascha non può riconoscere totalmente il male in Wolfgang Priklopil e ha un disperato bisogno di ritrovare in lui l’uomo, per sentirsi a sua volta essere umano e non venire spezzata.
Ecco il perché del suo rifiuto ad essere additata come affetta da Sindrome di Stoccolma, ecco la sua critica all’occhio indagatore della società che non accetta la sua fondamentale esigenza di non sentirsi solo nel ruolo di vittima.
Solo allontanando da sé il Male, solo riconoscendo una parte del Male in tutti, anche nel normale, e nel provare a comprendere e, forse, perdonare Natascha può trovare la forza di confrontarsi con la sua storia e ritrovare la libertà vera.
Sono profondamente sollevata di essere riuscita a trovare le parole per esprimere tutto l’impronunciabile, tutte le contraddizioni. […] Solo adesso posso tirare una riga e dire veramente: sono libera.