
Pagine: 304, Brossura
Prezzo: € 18,00
Perché ci vuole coraggio a osservare da vicino i matti e danzare sulla loro ordinaria follia. Che parlano un crogiolo di lingue e provocano un cortocircuito nella testa dei mica matti, incapaci di afferrarle fino in fondo. Nel caso di Elba, sì.
Elba, omonimo del grande fiume della Germania del Nord, è nata e cresciuta per una prima parte della vita in manicomio: quel mezzomondo in cui, fin dall’inzio, è immersa. Lo dipinge attraverso un dialogo incalzante tra matti e mica-matti, capace di scardinare la dicotomia normalità-pazzia e portare al centro l’umanità.
Compila meticolosamente il diario dei malanni di mente, traccia di tutti i pazienti con cui vive, delle loro stranezze e peculiarità, ricchezze e debolezze. Aldina è nevrastenica, Nunziata ossessiva, Nonna Sposina schizofrenica e Pina cleptomane. La Nuova non parla, ma è attraverso la sua corporeità trasparente che Elba (si) racconta: al Fascione è nata, tra la ninnanna e le premure della madre, per la quale Elba resta, cerca, spera. Perché è viva, e lo sa.
Elba incarna il ponte tra dentro e fuori, parole e silenzi, vecchio e nuovo. Sfacciata e a volte timorosa di Colavolpe, il dottore che decreta il “marchio per ogni disturbo”, sceglie la Caramella-rossa o la Caramella-blu, e se darti la scossa oppure no. Provocatrice curiosa e desiderosa di attenzioni del dottor Fausto Meraviglia, figura cardine e irruenta all’interno della storia. Lo psichiatra con cui si relaziona Elba e che cambierà le sorti della sua esistenza: ma cosa succede quando qualcuno di esterno cerca di cambiare le sorti della vita?
Gli eventi accadono a cavallo del ’78, anno in cui la Legge Basaglia ridefinisce la concezione di malattia mentale e mette la persona al centro della cura. Trecentosessanta gradi di tutto: c’è l’amore, che “a volte ti capita, ma altre di decapita”. La rabbia, che “ti si aggruma intorno al cuore come un catarro che impedisce il respiro, a lungo andare”. L’impotenza, la sconfitta, la voglia di vendetta. La comodità di ciò che è sempre stato, l’inesorabile meraviglia di ciò che si vede per la prima volta. La sete di conoscenza, che sia di verità o di cultura. La paternità per scelta, e ciò che la famiglia del Mulino Bianco non è.
L’Italia di fine Novecento, tra le righe un accenno al giornalismo di inchiesta sociale, che negli anni ’70 si afferma ma sgomita, e se è in grado di descrivere il mondo della tossicodipendenza e del traffico di eroina, cede di fronte ai manicomi.
Ardone è profondamente calata nel tempo, nella società. Connota i personaggi attraverso la lingua. Sceglie un linguaggio peculiare e fanciullesco, climax contenutistico e formale per Elba: il lettore riesce a sentirne la voce infante, un flusso giochi di parole, filastrocche, rime, richiami alle pubblicità più iconiche (Chi non mangia la Golia o è un ladro o è una spia!) e quella matura di chi è diventata donna. Vocaboli materni per Gilette, l’infermiera amica tra sorveglianti burattini; tono autoritario per i medici senza prospettiva, affanno di verbo per chi vuole instillare il cambiamento, in un mondo di opposti. Le descrizioni accurate tratteggiano luoghi e volti, verso cui è inevitabile reagire.
Spoglio di un giusto o di uno sbagliato, il libro è un invito ad allontanare l’omertà e ad essere guidati da quell’amore che è solo “desiderio di raggiungere un altro senza saper nuotare”.
Bellissimo. Ahà.

