Autore: Ivano Ciminari
Data di pubbl.: 2021
Casa Editrice: Montag Edizioni
Genere: Narrativa
Pagine: 98
Prezzo: €14,00
Ivano Ciminari è uno scrittore dotato di una dose geniale di umorismo.
La sua scrittura è allo stesso tempo pungente e ironica. Ogni volta che leggo un suo libro mi sembra di frequentare il primo e sulfureo Stefano Benni.
Così è stato anche per Un vetro di Mirò, l’ultimo libro dello scrittore salernitano.
Si tratta di un contro romanzo di formazione in cui il suo autore si diverte a dissacrare da autentico assassino della parola la cultura dei cosiddetti venerati maestri, gli stessi di cui parla Edmondo Berselli nel suo libro.
Il protagonista del romanzo è lo scrittore stesso che in un monologo esilarante, passando in rassegna la sua vita, demolisce in maniera irriverente e anticonformista il mondo assoluto della conoscenza.
Complice di questo divertente misfatto è un amico immaginario che lui chiama Diogene e compare su un vetro che riproduce un opera di Mirò e che se ne sta in una grande nicchia sul muro che divide il salone dalla camera da letto.
«In pratica considero ciarpame il novanta per cento delle pagine che vedo sprecate in libreria, e quando leggo le classifiche dei best seller, mi vengono le bolle».
Ivano non le manda a dire, non si prende mai sul serio mentre umilmente confessa la sua grassa ignoranza ma anche la completa insofferenza per il contemporaneo mondo delle lettere che spesso fa diventare gli imbecilli dei veri e propri geni.
Ivano sta dalla parte degli assassini della scrittura, è innamorato dei cani in chiesa e tutti coloro che se ne infischiano del politicamente corretto e delle mode e preferiscono essere voci fuori dal coro.
Con una canzone di Guccini sempre in testa, il nostro autore tesse le lodi di scrittori e uomini liberi, irregolari senza patria che hanno avuto il coraggio di assassinare con la scrittura le convenzioni.
«Vivono ai margini, in quei sobborghi del pensiero, frequentati soltant0 da topi e scarafaggi, dove non puoi avventurarti senza sporcare le scarpe e senza respirare l’odore, per di più nauseabondo, dello storicismo culturale».
Vendo fuori i nomi di Dario Bellezza, Alda Merini, Giuseppe Berto, Ennio Flaiano e di tutti quei cani sciolti che intingono il pennello per spargere gocce di fango e merda tra le macerie dell’abuso, mentre diventano argilla nelle mani di un dio minore e inconfessabile.
Lo scrittore farnetica con una lucidità invidiabile e il suo amico immaginario l’ascolta con attenzione e con risposte folgoranti lo asseconda in tutti i suoi deliri che remano in direzione ostinata e contraria.
Diogene diventa anche lui una voce scomoda, una folle fuori dal coro.
L’amico immaginario non è altro che la coscienza del protagonista, un alter ego che spesso diventa un eteronimo con licenza di uccidere le parole delle «iene modaiole» e di distruggere tutta quella volgarità dell’apparenza che diffonde il pensiero unico affinché da questa luce nera scaturisca un grammo di salvezza: quella libertà di pensiero di cui si sente da troppo tempo la mancanza.