Tutti conosciamo Toni Capuozzo: il suo volto ci è diventato familiare per le tante corrispondenze effettuate dai luoghi di guerra e per la trasmissione di approfondimento del TG5 “Terra!”.
Al Salone di Torino, in occasione dell’uscita del suo ultimo libro “Le guerre spiegate ai ragazzi”, abbiamo avuto con lui una piacevole e interessante conversazione sul suo mestiere di giornalista e sul suo rapporto con i libri.
Lei è stato testimone di tanti conflitti. Come mai è diventato inviato di guerra?
Non mi piace essere definito inviato di guerra, preferisco definirmi un cronista. Devo confessare però che per un giornalista i conflitti sono un terreno importante, le guerre sono un disvelamento della società: gli uomini danno il peggio ma anche il meglio di sé. Non posso dire quindi di aver fatto questo mestiere con riluttanza o malvolentieri: è stata un’occasione per capire tante cose di me stesso e degli altri. D’altro canto però, come tutte le persone normali, sogno un mondo senza guerra.
Dopo aver assistito a tanti orrori, quanto è difficile tornare alla vita normale?
E’ il momento più difficile: ad esempio quando c’era la guerra nei Balcani sembrava impossibile, in un’ora di volo, tornare nella normalità. Ci si accorge di quante cose siano false, prima di tutto le parole. Io ad esempio sono appassionato di calcio e mi rendo conto che in quel campo il linguaggio giornalistico utilizza una terminologia bellica e tutto questo è ridicolo. Incominci quindi ad usare con molta prudenza certi termini, come ad esempio “odio”. Poi queste esperienze mi hanno insegnato a dare il giusto valore alle cose e a ripensare agli insegnamenti ricevuti in famiglia. Mio padre era uno che conservava anche i chiodi storti: io mi sono accorto che ciò veniva proprio dal fatto che aveva vissuto la guerra. Anche le piccole cose quando c’è scarsità di tutto diventano importanti, tendi a non buttare via niente. A posteriori ho apprezzato questa sua parsimonia: penso sia delittuoso anche sprecare il cibo. Ho capito inoltre la fortuna che ho avuto ad andare a scuola, pensando alle bambine afghane per cui tutto ciò è stato una conquista faticosissima e ancora non consolidata. Le guerre ci fanno capire come siamo viziati e la fortuna che abbiamo.
Che cosa l’ha spinta a scrivere un libro espressamente dedicato ai ragazzi?
Il libro è formulato a domande e risposte e il quesito più giusto e importante che pongono i ragazzi è quello che non ha risposta: perché la gente si uccide? Sono partito da una considerazione: io come tutti i padri ho sempre cercato di proteggere i miei figli dalle cose peggiori, anche con un gesto semplice come mettergli le mani davanti agli occhi se ci sono scene troppo forti in TV. Mi sono accorto però che non è giusto, perché le notizie arrivano comunque. Occorre provare a capire, che non vuol dire giustificare ma chiedersi che cosa succederà dopo, quali sono i retroscena e le spiegazioni possibili, senza avere l’arroganza di rispondere a quel perché iniziale. Inoltre l’esperienza mi ha insegnato che la trasmissione dei valori dall’alto, dalle istituzioni, rischia di dare per scontato che essi vengano condivisi proprio perché vengono ripetuti molto spesso con ufficialità. Un esempio di tutto ciò è la Ex-Yugoslavia: nella sua stessa costituzione si indicava come un elemento di ricchezza la diversità etnica e religiosa: se c’era un paese che era un mosaico armonioso di tante culture diverse era proprio questo. Poi in realtà è accaduto che ci si è accoltellati tra vicini di casa. Le guerre condotte da eserciti in divisa sono orrende, ma lo sono ancora di più quelle condotte da combattenti improvvisati che parlano la stessa lingua, le guerre civili insomma. Ciò ha conseguenze soprattutto sul dopoguerra: essi oggi (vedi ad esempio l’Afghanistan) sono più sanguinosi delle guerre e quindi rischiamo nella bella retorica degli insegnamenti di parlare di cose diverse. La pace spesso non è quella che intendiamo, cioè una pacificazione degli animi e un addio alle armi, ma solo un cessate il fuoco imposto da accordi internazionali.
Che cosa vuole trasmettere quindi il suo libro?
Il piccolo pregio di un libro così è insegnare che la pace e il pacifismo sono una conquista culturale che nessuno di noi deve dare per scontata, neanche dentro noi stessi. E’ una cosa che impari, anche se complessa, però devi allenarti quotidianamente. Possiamo pensare di non essere razzisti perché abbiamo letto buoni libri e perché ce l’hanno insegnato, poi improvvisamente arrivano nel nostro paese delle persone che parlano lingue diverse, cucinano con odori diversi, hanno orari diversi e scopriamo che non essere razzisti è un esercizio faticoso nel quale conoscere l’altro, ma anche conoscere i fenomeni più devastanti, è importantissimo. Oggi spesso non è soltanto la conquista di un territorio a far nascere le guerre, ma anche il razzismo in sé.
Qual è il suo rapporto con i libri?
Ero un pessimo studente però leggevo molto. I miei non erano una famiglia benestante o di grande cultura ma c’era uno scaffale con i libri in casa e loro mi regalarono “Verdi colline d’Africa” di Hemingway per i miei 15 anni. Io lavoravo sempre d’estate e quando sono usciti gli Oscar Mondadori pensavo che avrei comprato tutti i libri di quella collana esattamente come raccoglievo francobolli: in realtà ovviamente non è stato così. Ai miei figli ho sempre detto che leggere buoni libri è qualcosa che ti dà potere sulle parole: ad esempio se tu vuoi conquistare l’attenzione di una ragazza o di un ragazzo conoscere più parole ti aiuta ad esprimere meglio ciò che hai dentro. È vero che si comunica anche con il corpo, ma la parola ti dà molte più opportunità.
Leggi anche la nostra recensione di “Le guerre spiegate ai ragazzi” di Toni Capuozzo
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