Quando mi capita di tornare in Italia dopo viaggi in paesi considerati maledetti come l’Afghanistan, l’Iraq, l’India degli slum, il Pakistan scosso dalle alluvioni o dai terremoti, c’è sempre qualche amico che mi chiede: “Come fai a sopportare di vedere tanta infelicità e disperazione? Come fai a sopportare di vedere le sofferenze causate dalle guerre o dalle sue conseguenze, dalla fame, dalla miseria, dalle ingiustizie, dalla privazione delle libertà?”
Amici e conoscenti sembrano quasi morbosamente interessati soltanto ai racconti più drammatici che porto come bagaglio personale quando torno a casa. D’altro canto è così che veniamo diseducati leggendo i giornali o guardando la televisione: in quei postacci ci può essere soltanto dolore, violenza, paura. Non ci può essere spazio per nient’altro, men che meno la felicità.
Io so che non è così . Un uomo è un uomo dovunque si trovi. In ogni luogo cerca benessere, amore, sicurezza, gioia per sè e per la sua famiglia. Ed è questo che preferisco raccontare ogni volta che torno. Della gioia di vivere di cui, nonostante tutto sono ricche le persone che mi capita di incontrare: i giovani che a Sarajevo sotto assedio si ritrovavano nei pochi locali aperti per ascoltare musica e amoreggiare; la ragazzina afghana che di nascosto durante il regime talebano cantava e ballava al ritmo delle canzoni di Ricky Martin; le donne indiane che, nel deserto del Rajasthan, fanno a piedi chilometri a piedi, sotto il sole cocente, per arrivare ai pozzi d’acqua e che, sulla strada del ritorno, si fermavano ai bordi di una strada per riposare e per godere alla vista del sole che tramonta dietro un lago o una collina.
Nel mio bagaglio c’è il contadino tibetano, con il suo fascio pesante di paglia sulle spalle, che si era dimenticato della fatica per fare quattro chiacchiere con me con la voglia di sapere tutto: se avevo figli, da dove venivo, come si viveva nel mio Paese. La curiosità gli faceva brillare gli occhi dalla gioia. Ricordo un anziano fraticello di un convento sulle colline libanesi, martoriate dai bombardamenti. Il frate raccontava come in quel monastero producevano dell’ottimo vino. E lui era simpaticamente ubriaco, tenerissimo, spiritoso e felice. In un’isoletta sperduta dell’Indonesia ho incontrato una vecchietta sdentata che si era innamorata di George Clooney, visto alla televisione nelle camere di un albergo dove con il suo scopino faceva pulizie. Per lui aveva composto delle canzoncine e dei ritornelli. E quando li intonava sembrava un’adolescente che parlava del suo primo amore.
Ricordo la mia guida nepalese, Tulsi Ram Baral. Durante un trek sulle montagne himalayane, si fermava spesso per farmi ammirare il paesaggio e ogni volta mi ripeteva in risposta alle mie sollecitazioni, andiamo che facciamo tardi e un brano della poesia del poeta gallese Davies: What is life if full of care we have no time to stand and stare? Già cos’è la vita se piena di preoccupazioni non abbiamo nemmeno il tempo di fermarci e ammirare quello che ci sta intorno? Cos’è la vita di tutti noi che non abbiamo mai tempo per niente di quello che diciamo che ci importa, la famiglia, gli amici, il vivere per noi stessi?
Cerco sempre, quando viaggio in quei posti maledetti di allargare lo sguardo, non guardare con lo zoom il dolore, ma usare il grandangolo e guardare la vita delle persone che incontro nel loro complesso, per capirli e per capire. Soprattutto per non creare una distanza tra me e loro. La gente non diventa qualcos’altro diverso da noi durante una guerra o un terremoto devastante. La gente desidera la felicità. Non ci sono popoli che, in ogni situazione, anche le più disperate non ricerchino in qualche modo la felicità per sè e per i loro cari. La guerra e le dittature sono ancora più crudeli se le guardiamo in questo modo: una violenza continua contro la naturale tendenza umana di volere stare bene.
Non voglio negare che le guerre, le carestie, le dittature la povertà lascino profonde cicatrici nel corpo e nell’anima, ma credo che ci che rende infelice e depresso un popolo sia soprattutto la mancanza di speranza nel futuro e la paura di perdere quello che si ha. Questo può succedere ovunque, sia in quei posti miserabili dove la gente deve affrontare reali e gravi problemi quotidiani, sia dove in apparenza c’è tutto, come qui da noi. Anzi spesso proprio dove c’è tutto c’è meno speranza e più paura. Forse perchè abbiamo più cose materiali da perdere. Forse perchè si può sempre sperare che una guerra finisca, che la carestia passi, che una dittatura lasci il posto a una democrazia. Ma che fare quando la paura è dentro di noi? In che cosa si può sperare per il domani quando ci è persino difficile capire cosa vogliamo davvero o quando non sappiamo pi provare gioia per nulla?
Devo dire che spesso tornando da quei paesi maledetti mi sembra che da noi ci sia ancora più sofferenza, poca gioia di vivere, poca consapevolezza di quanto abbiamo in più di quello che ci serve veramente, quanta poca capacità ci sia da parte di molti di sopportare il minimo dolore o contrattempo. Per qualsiasi cosa si scappa subito in farmacia per cercare un rimedio alla nostra sofferenza, quasi contenti quando la possiamo giustificare con un dolore fisico reale (12 milioni di italiani fanno uso di psicofarmaci). Sempre più spesso ci rendiamo conto di quanto la vita ci potrebbe offrire, se soltanto sapessimo dare le giuste priorità alle cose, quando ci ammaliamo gravemente, quando magari non abbiamo più tempo per fermarci ad ammirare.
Anni fa, tornando a casa dai viaggi, l’Italia mi sembrava un paese felice, dove la maggior parte della gente custodiva sapientemente il segreto del saper vivere. Oggi qualcosa è cambiato. E non lo penso soltanto io. Molti colleghi e viaggiatori hanno la mia stessa impressione rientrando dall’estero: l’Italia sembra una macchina che ha solo la retromarcia.
Discutere di felicità significa cominciare un viaggio alla ricerca del senso della vita, un viaggio personale, ma anche di tutta una comunità. Per partire bisogna preparare bene il bagaglio: mettersi in gioco, cercare di guardarsi dentro con onestà per capire innanzitutto, senza farci guidare dalla paura, dai luoghi comuni, dal conformismo, dove vogliamo andare veramente. Forse il segreto della felicità è davvero tutto qui. Perchè la felicità non è una meta, ma un percorso. E siccome il pesce puzza dalla testa, chi ci governa dovrebbe, ora, subito, rimettersi a camminare per ridarci la speranza e liberarci dalla paura.
Lucia Vastano, giornalista professionista dal 1982, collabora con alcune testate italiane e statunitensi. Come inviata ha seguito le guerre in Libano, Angola, Salvador, Cambogia, nel golfo e in Iraq, nei Balcani, in Albania, Afghanistan e Kashmir. È autrice di reportage da vari Paesi africani, dalla Cina, dall’India, dagli stati islamici dell’Asia Centrale e dall’America. Ha vinto numerosi premi giornalistici tra cui, nel 2005, il prestigioso Premio Saint Vincent, e il premio unesco 2003 «Comunicare i diritti umani» riservato agli inviati di guerra. Con la Casa Editrice Salani ha pubblicato “Tutta un’altra musica in casa Baz” nel 2005, vincitore di diversi premi letterari, “Un cammelliere a Manhattan” nel 2008 e, quest’anno, “La magica felicità imperfetta“.