La famiglia di Lepisma saccharina, padre, madre e un figlio, si dev’essere stabilita fra le pagine quarantaquattro e quarantacinque del Crusoe di Daniel De Foe solo nell’ultimo anno. Lo posso affermare quasi con certezza, perché è passato un anno esatto da quando ho terminato di leggere a mia figlia Le avventure di Robinson Crusoe. Perciò i Lepisma, che rifuggono la luce, gli esseri umani e i movimenti da loro prodotti, hanno avuto mesi di assoluta tranquillità per divorare una superficie di carta pari a circa tre centimetri per due e l’inchiostro su di essa steso. Insomma, il danno sul libro c’era ed era visibilissimo: sulla pagina quarantaquattro, in basso, mancavano due righe di testo, con lievi affioramenti di consonanti e vocali, mentre sulla dirimpettaia quarantacinque, tre righe risultavano completamente cancellate, arate dall’impianto masticatorio dei pesciolini d’argento, come vengono comunemente chiamati questi insetti dell’ordine dei Tisanuri.
Li avrete visti anche voi, almeno una volta, aprendo un libro, alzando un tappeto: sono piatti, di colore argenteo, con sei zampette, due antennine anteriori e tre posteriori, d’aspetto arcaico, da sopravvissuti a qualche olocausto universale, e al tempo stesso modernissimi, piccoli siluri d’acciaio, corazzati e il sospetto che siano micro armi per guerre futuribili può anche venire.
Speravo d’averli debellati, sconfitti, o almeno allontanati dai volumi della libreria di pino russo, che occupa un’intera parete della stanza dove lavoro. Fra quei ripiani ci sono libri preziosi, libri antichi ai quali tengo particolarmente. Il Robinson Crusoe è uno di questi, edizione del 1957, l’anno della cagnetta Laika e del suo volo cosmico e mortale a bordo dello Sputnik. Non è andata così, non li ho sconfitti purtroppo. Sì, perché i Lepisma, fra tutti gli alimenti, sono ghiotti di polisaccaridi, di cellulosa, di carta insomma. E di carta, in casa mia, ce ne sono pascoli immensi. Persino le pareti sono rivestite di carta. Un paradiso per Lepisma e affini. No, non ho voluto usare insetticidi, creare camere a gas mortifere per insetti, animali domestici ed esseri umani. Ho chiesto ad un mio amico entomologo, che s’occupa di lotta biologica e mi ha consigliato di usare foglie di alloro e sacchetti di lavanda, da distribuire qua e là fra i libri, per la stanza. E’ stato un anno parecchio profumato, gradevole, l’ultimo anno. Soprattutto per i pesciolini d’argento, credo.
Meno male che c’è Maurizio, il mio rilegatore di fiducia, artista nel restauro, baffi e camice nero, romano, del quartiere San Lorenzo. Un mago. Uno capace di ricostituire libri smembrati, squassati, distrutti, lavorando di filo, ago, colla e pennello. Ma anche con tecniche grafiche estremamente raffinate. Bravo ed economico. “Se pò fa’ “, mi ha detto, togliendosi gli occhiali e annuendo. Avrebbe rielaborato al computer le pagine di De Foe, ricomponendo le frasi divorate dai Lepisma: stesso carattere, stessa grammatura della carta, carta antica, che lui tiene appunto per simili occasioni. Cucitura e rilegatura comprese. “Mo ce vonno le frasi giuste” ha aggiunto, fotocopiando le pagine rovinate. Le frasi, già. Quelle giuste. Di quella edizione. Del Cinquantasette. Tradotta da quei traduttori. Mi sono messo in caccia. Ho pensato fosse facile. Non lo è stato affatto. Dalla Biblioteca Nazionale alla Biblioteca Comunale, di Robinson Crusoe ne avevano a bizzeffe: ma non quella edizione. E guardate, ingenuamente, tradito da alcune affinità, ho anche provato ad accoppiarle le edizioni. Come unire un preludio di Bach eseguito al pianoforte allo stesso brano suonato al sax. Il senso era quello, l’effetto musicale no. Insomma, per farla breve, ho scoperto che l’italiano usato nel 1957 dai traduttori non era lo stesso italiano delle edizioni più recenti. Ci voleva molto a capirlo? Perché, per quanto strano possa sembrare, l’inglese settecentesco di Daniel De Foe, non trattenuto da traduttori più recenti, ha subito una sorta di scivolamento verso la modernizzazione. Per farvi un paio di esempi: “…le dissi che il mio animo era così pieno del desiderio di vedere il mondo…” è amabilmente differente dall’analogo: “…le dissi che la mia anima traboccava dal desiderio di girare il mondo…” Oppure: “Passò ancora quasi un anno da questi avvenimenti, prima che io prendessi il largo…” non possiede lo stesso suono di: “Era passato quasi un anno da questi fatti, prima che mi decidessi a riprendere il largo…” No, accoppiamenti impossibili. Dovevo ritrovare l’edizione originale. Mi sono messo a chiamare una decina di librerie antiquarie. Tutte possedevano il Robinson Crusoe. Una mi ha persino illuso: sì, aveva l’edizione del 1957. Mi sono precipitato. E’ stato come entrare in una caverna fatta di libri. Erano stanze di libri. Mura e soffitti di libri. Avrei voluto anche chiedere al proprietario se lì, di Lepisma saccharina, di pesciolini d’argento, ne avesse mai veduti. Non ne ho avuto il coraggio. Anche perché il proprietario smanettava sul computer, segnava un numeretto su un foglio e s’arrampicava sui libri. Cataste di libri. Come un geologo. Uno speleologo. Sudava. Scuoteva il capo e tornava al computer a smanettare. Risultato: il libro sul catalogo virtuale esisteva, ma nella catasta dov’era stato classificato no. Forse venduto. Forse travolto da una slavina libraria. E’ durata più di mezz’ora questa manfrina. Mi dispiaceva più per lui che per me: alla fine gli ho comprato una rara pubblicazione illustrata del 1983 sulla Voga alla veneta, edita dal Comune di Venezia, Assessorato Turismo e Sport, al prezzo speciale di 19 euro. Regalata.
La soluzione, invece, è arrivata inaspettata, proprio ieri, camminando per bancarelle di libri usati, vicino alla Stazione Termini. Una specie di illuminazione. Un ragazzo indiano, uno dei tanti che vengono messi lì per quattro soldi dai proprietari dei banchi, stava spolverando un gruppo di libri. Uno dei libri l’ho inquadrato subito, il nome dell’autore si confondeva col titolo, De Foe Robinson Crusoe; e sotto, un quadro di Henri Rousseau, L’incantatrice di serpenti. Gliel’ho strappato quasi dalle mani a quel ragazzo indiano. Stessa casa editrice. Diverso anno di pubblicazione, però: 1965. Ho cercato i nomi dei traduttori: nulla, vaporizzati, mai riportati. L’edizione era di quelle tascabili. Il prezzo anche: 5 euro. L’ho comprato al volo, spinto dalla speranza e dall’intuizione. Sono andato dal mio amico Maurizio, alla rilegatoria, dove giaceva l’altro Crusoe, quello sfregiato: abbiamo scorso le righe insieme, come avemmarie di rosario. Le stesse parole. La stessa punteggiatura. Ci siamo letti pure la prefazione: “Se mai al mondo la storia delle avventure personali di un uomo meritò di essere resa di pubblica ragione…” Identica. Abbiamo estratto le frasi mancanti, lettera per lettera. Maurizio s’è messo al lavoro. Fra qualche giorno, il libro sarà riparato. Io, intanto, mi sono concentrato sul problema dei Lepisma saccharina. Un problema concreto, reale. Ho pensato alla lotta biologica, all’introduzione in casa di animali antagonisti e nel ventaglio di possibilità, su suggerimento del mio amico entomologo, semplici da reperire, grandi lavoratori, al tempo stesso silenziosi e dal carattere discreto, ho deciso di provare con i gechi. M’è bastato tenere la finestra aperta, la scorsa notte. Perché di gechi, vicino al lampione stradale, ancorato alla facciata del palazzo, ne ho sempre visti tanti, d’estate e d’inverno. Stanno lì, immobili e pazienti, aspettano che una farfalla, una mosca, un ragno o una zanzara, attirati dalla luce, sbaglino il volo, la rotta e finiscano a portata di lingua. Zot, uno schiocco e l’insetto si ritrova in quelle fauci.
Ora sono tre giorni che uno di questi gechi gira per la stanza. Mentre scrivo, ne ascolto i guizzi, il suo frusciare felice in questo mondo di libri infestato dai Lepisma. Per lui dev’essere come pescare trote al laghetto di pesca sportiva. In attesa che la colonia s’allarghi, questo geco coraggioso, che sento e non vedo mai, ho deciso di chiamarlo Venerdì: col tempo, lo so, mi ci affezionerò, nonostante il mio amico entomologo m’abbia messo in guardia, perché difficilmente Venerdì si affezionerà a me. Mondi troppo lontani i nostri, mi ha detto. Chissà: le isole, talvolta, fanno miracoli.

* Copyright Francesca Scardino
Giuseppe Furno vive a Roma, dove è nato. Laurea in Lettere, dopo varie esperienze lavorative come operaio, custode di museo e marinaio, da molti anni scrive sceneggiature per la radio, il cinema e la televisione, firmando episodi in serie di successo. Ha pubblicato tre guide di viaggi a piedi e su treni a bassa velocità, il racconto “Morire è un movimento semplice” e il romanzo “Cronache di un disinfestatore”, selezionato al Campiello 2007, finalista al premio Corrado Alvaro. Con “Vetro”, pubblicato da Longanesi, fa il suo esordio nella narrativa storica.