OLTRE LA PENNA di… Giorgio Ieranò

Circe aveva gli occhi grandi, bistrati di nero. Guardava Ulisse con curiosità, con lo stupore di un ragazzo che osserva un insetto strano. Calipso appariva lontana e malinconica, la pelle ambrata, i lunghi capelli biondi. Una tunichetta bianca le scendeva in mille pieghe fino a terra quando camminava sulle rive dell’isola Ogigia. Nausicaa invece era un’adolescente: nel suo sguardo vivace nascondeva piccole furbizie da bambina ma anche l’amore che sentiva nascere in cuore per lo straniero misterioso venuto del mare.

Così apparvero, a noi ragazzi degli anni ’60, le donne dell’Odissea, quando le vedemmo per la prima volta, in televisione, nello sceneggiato del regista Franco Rossi. Diciamo la verità: molti di noi non capivano perché Ulisse volesse a tutti i costi lasciare queste splendide ragazze per tornare da Penelope, che era la grande Irene Papas. Bellissima anche lei, per carità, ma forse di un fascino più maturo, che a noi bambini diceva poco. Invece Calipso, con la sua tunichetta, la portavamo stampata anche sulla copertina dei quaderni di scuola. E, mentre la maestra parlava di grammatiche e tabelline, in quelle mattine milanesi di una volta, grigie di nebbia e di smog, ci perdevamo a sognare la ninfa bionda, rapiti nel mondo solare della sua isola incantata.

Poi c’erano i mostri, c’era quel Ciclope spaventoso che, come scoprimmo più tardi, era stato inventato da Mario Bava, un maestro del cinema horror nostrano. A noi, onestamente, faceva paura, anche se non lo ammettevamo. E quando afferrava i poveri compagni di Ulisse, che si agitavano come bestioline inermi nelle sue mani giganti, il brivido che ci prendeva risvegliava in noi qualcosa di oscuro e di ancestrale. Ma il più spaventoso di tutti era quell’uomo dal viso rugoso, senza sopracciglia, con gli occhi che erano due fessure iniettate di luce obliqua, la voce che biascicava parole come fossero pietre masticate nella bocca. Era Giuseppe Ungaretti, il poeta: introduceva ogni puntata dello sceneggiato alla sua maniera, suggestiva e istrionica. A noi pareva vecchio di una vecchiezza mitologica e millenaria, più antico dell’Odissea stessa, e quando parlava la sua voce sembrava venire da un remoto aldilà.

I canali televisivi allora erano solo due, e il secondo era arrivato da pochissimo. L’Odissea di Franco Rossi fu un evento per tutta la nazione, che sembrava davvero ansiosa di sapere se alla fine Ulisse sarebbe riuscito a tornare a Itaca, se la sua astuzia sarebbe bastata per sconfiggere i Proci, che erano così tanti e così cattivi. I genitori tolleravano, con qualche mugugno, che si stesse alzati a guardare la tv perché, in fondo, era un programma culturale. Ma a noi della cultura importava assai poco. A noi premeva il sogno, l’avventura, premeva sapere che Ulisse riusciva a scampare a ogni pericolo. Era l’eroe fatto per noi, che non eravamo aitanti e muscolosi, e dovevamo subire le angherie dei più grandi. Ma, se ce l’aveva fatta Ulisse col Ciclope, anche noi potevamo riuscire a cavarcela con il bullo di turno, nel nostro quartiere di periferia, periglioso come l’Egeo in tempesta. Usando come Ulisse l’astuzia, visto che la forza difettava.

Ulisse per noi era Bekim Fehmiu. Per tutti era Bekim Fehmiu. Anzi, è ancora e sarà sempre Bekim Fehmiu per quanti sono cresciuti in quegli anni. Era un attore magnifico, con un viso di un’intensità rara. Cresciuto nella vecchia Jugoslavia, albanese di origine kosovara ma di casa a Belgrado, aveva visto con orrore la sua patria devastata dai nazionalismi più ottusi. Così, dai tempi della guerra civile degli anni ’90, aveva preferito stare in disparte. Poi, un giorno del giugno 2010, in silenzio, Fehmiu ha preso una pistola e si è sparato. Così almeno raccontano i giornali. E tu non sai se sia vero. Ma quando li apri, e ormai sei invecchiato anche tu, e leggi che Ulisse si è ucciso, allora pensi a quel verso di Pavese (“Verrà il giorno che il giovane dio sarà uomo”), e ti rendi conto che tutta la tua infanzia appartiene anch’essa al regno del mito e della favola, e pure la Milano nebbiosa degli anni Sessanta abita ormai tra quelle ombre dell’Ade che il re di Itaca visitò nel suo viaggio.

Un greco dei nostri giorni, un remoto discendente di Ulisse, ha scritto col gesso una frase su un muro scrostato di Atene, l’Atene di oggi, devastata dalla crisi economica. La frase dice: “Moni patrida ta paidika mas chronia”. Significa: “Unica patria i nostri anni d’infanzia”.

Giorgio Ieranò, giornalista, scrittore e docente universitario, insegna Filologia e Letteratura greca all’Università di Trento. Tra i suoi libri più recenti Arianna. Storia di un mito (2007) e La tragedia greca. Origini, storia e rinascita (2010). Con Sonzogno ha pubblicato Olympos. Vizi, amori e avventure degli antichi dei (2011) e Eroi. Le grandi saghe della mitologia greca (2013). 

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