“Oltre la penna” mi ha invitato a scrivere questo editoriale. Il tema è libero, la lunghezza pure. Ho accettato con piacere, ma confesso che ora – mentre mi accingo a scriverlo – tanta libertà un po’ mi fa paura.
La situazione sembrerebbe ideale, ma a ben vedere nasconde anche una specie di generosa trappola.
Cosa scrivere, quando si è “liberi di scrivere quel che si vuole”? Cosa si ha di veramente interessante da dire, per un pubblico tra l’altro così scelto, per un pubblico che i libri non solo li ama, ma li comprende – a volte li adora altre li tollera – per un pubblico che legge, ma spesso anche scrive? Cosa si può condividere con simili interlocutori, attenti ed esigenti?
Mi viene in mente che con i libri ho fatto quasi tutto. Sono stato editore, curatore, qualcosa l’ho tradotta, e la mia bibliografia di titoli ne conta una dozzina.
Anche la scrittura l’ho declinata in tanti modi diversi. Ho scritto per il teatro, la tv, collaboro con quotidiani e riviste, e ho fatto persino il ghostwriter.
A pensarci un po’ mi pesano le parole di Thomas Mann: “Una persona seria non scrive, non dipinge e non compone”. Può sembrare assurdo che uno dei più grandi narratori di tutti i tempi, se n’esca con un simile aforisma. Invece è forse quanto di più ovvio.
Essere liberi di “scrivere qualsiasi cosa”, ha il sapore di un bilancio. E il bilancio è amaro per definizione: “Non sono un Leopardi, lascio poco da ardere ed è già troppo vivere in percentuale” scrisse un altro gigante della letteratura, Montale.
Forse è per questo che ho sempre amato l’incipit. L’esordio. L’inizio, insomma, perché è sempre bello il “cominciare”.
Ti dicono: “Scrivi qualcosa per noi” e per un attimo, come in una fiaba, prende forma una tavola imbandita, carica di leccornìe. Ti siedi lì, alla tastiera, e puoi scrivere tutto, qualsiasi cosa. È come sedere in riva al mare, e sognare di partire in quell’istante stesso, spinti da un vento che non ci tradirà, verso una meta che non ci tradirà nemmeno quella. Allora tutto sembra carico di passione e verità. Via, si parte! Verso il destino, verso la donna che ameremo, verso quell’attimo in cui tutti i conti torneranno, e le lacrime salate saranno dolci come i sorrisi, verso la nostra verità. E infine, al termine di quel viaggio, ci immaginiamo sazi, appagati. La dico tutta? Sì, felici.
Persino la vecchiaia e la morte, sull’onda di quel desiderio, di quell’entusiasmo che ci dà lo slancio dell’inizio, sembreranno una prospettiva sensata e attraente.
Cominciare a scrivere è ogni volta come ricominciare a vivere d’accapo. È uno stato d’animo esaltante, che trasforma il mondo intero in una promessa che ci attende.
L’immensità esercita su di noi un potere seduttivo irresistibile. Forse perché è l’antitesi perfetta della nostra condizione vera, perché è la speranza illimitata – ovvero il sogno – di qualcosa di più.
“Non amo che le rose che non colsi”, scrive Gozzano, perdendosi nel piacere tutto contemplativo di quell’infinitesimo del tempo reale capace di farsi così piccolo da sfuggire alle più strette maglie della realtà, e nel quale riusciamo a godere non con i sensi, ma con la parte più misteriosa e profonda di noi.
Eppure poi si scopre che scrivere – come vivere – in fondo è fatica; e che si tratta di scolpire un blocco strano, di un materiale ancor più strano: il niente; che è assai più duro e difficile da lavorare dell’ebano o del marmo. E si scopre che per dominare almeno un poco il “toro bianco”, c’è tanto mestiere da acquistare, tanto da sudare, e soprattutto c’è da fare e da rifare mille volte lo stesso viaggio verso quell’immensità così attraente, così promettente.
Non siamo di quelli che si arrendono. No. Ostinatamente continuiamo a cercare “qualcosa di grande” da scrivere e da raccontare, possibilmente senza dimenticare che è un’altra la storia vera, quella che tutti ci contiene: è la vita, dove nessuno è protagonista e nessuno ha il privilegio di “scrivere quello che vuole”.
A volte però quel “qualcosa” lo troviamo davvero. Magari sta in un solo rigo, o una parola. E in quel momento la certezza che il mondo si regga tutto su una promessa che ci attende, trova la sua conferma. L’orizzonte sconfinato della mente si congiunge con quello del cielo e del mare. È un momento magico. È il momento in cui si comprende che “la promessa” siamo noi.
Flavio Pagano (Napoli, 1962) è un autore eclettico. Spazia attraverso vari generi letterari, alcuni suoi lavori sono diventati spettacoli teatrali e ha scritto anche per la tv. Nel 2011 ha ricevuto il Premio speciale Elsa Morante–Isola di Arturo con il libro Ragazzi Ubriachi. Per Giunti Editore ha firmato “Perdutamente”, appena uscito, e il saggio sull’omosessualità nello sport Il campione innamorato (2012, con Alessandro Cecchi Paone). Collabora con ilCorriere del Mezzogiorno e il manifesto. Autodidatta per vocazione, suona il violoncello e il piano. Ha giocato a rugby, sua grande passione. Vive a Napoli.