– Ciao bellissima! –
Così esordisce ancora mio nonno, novantaduenne, quando mi vede.
Eh, sì, sono stata l’unica nipote per oltre quindici anni, tanto desiderata.
– Allora, come è andata oggi al lavoro? – mi chiede, seduto al tavolo, mentre chiude uno dei quotidiani che sta leggendo. Sono sempre gli stessi tre.
Ha labbra carnose che ti stampano addosso teneri baci umidi, un azzurro penetrante negli occhi che da bambina mi faceva tremare, e mani che cominciano a piegarsi all’artrite.
Quelle mani hanno curato tante persone. Lui, medico di base e poi dentista, ha predisposto tutto affinché figli (e nipoti) seguissero la sua scia.
– Nonno, oggi non c’erano pazienti in agenda. – Gli dico. – Ho scritto.
Gli occhi azzurri mi scrutano. Sono gli stessi che una volta mi dicevano senza parlare di abbassare il volume dei cartoni animati. Perché la stanza della televisione era accanto all’ambulatorio di medicina generale, e i pazienti sentivano tutto. Più magro e asciutto, nel suo camice bianco saltava così dai mutuati di qua allo studio odontoiatrico di là, tutto nella stessa casa, dove credeva di dover vegliare su mio padre dentista alle prime armi, passando davanti a me che guardavo “Belle e Sebastien”, “Fiorellino giramondo” e “Lady Oscar”.
– Ah, – mi dice, forse un po’ deluso, e comincia a mettere a posto le sue carte, buste e bigliettini sparsi sul tavolo, e a legarli a mucchietti con degli elastici.
Adesso le passa così, le sue giornate.
Lui che una volta non aveva tempo neanche per dormire.
Figlio unico di madre vedova che aveva venduto tutti i campi di granoturco per farlo studiare, all’università faceva l’istitutore in collegio per mantenersi e studiava di notte. Gli ho sempre chiesto come avesse fatto a laurearsi in sei anni giusti e con il massimo dei voti. Io non ci sarei riuscita, io di notte ho sonno. Perché c’era la guerra e allora si chiudeva un occhio, e poi c’era bisogno di medici, mi ha spiegato più di qualche volta.
Anche quando gli diedero la prima condotta, subito dopo sposato, in un paesino di montagna vicino al lago di Garda, non andò meglio. Una notte gli bussò il marito di una donna che stava per partorire. Somaro, lanterna, e grandi passi nella neve, arrivarono alla sperduta frazioncina quando il bambino era bello che nato.
– Tuo nonno, cinquant’anni fa, ha salvato mio padre dalla peritonite, – mi ha detto una volta un paziente, – Con una canna di bambù. L’ha spezzata lì, al momento. – Giuro, questa non l’ho ancora capita, e non so se appartenga alla mitologia. Perché mio nonno è diventato un mito. Perlomeno nel paese dove vivo. – Era il medico che c’era sempre, e veniva anche di notte, non come quelli di adesso che stanno solo davanti al computer, – mi dicono in tanti. – E ti dava subito l’antibiotico e ti faceva la puntura, così guarivi in fretta. – (Eh, sì, decenni fa c’era meno attenzione a non creare le antibiotico resistenze…)
Capisci, poi, quando una si sente questa eredità sulle spalle.
A settant’anni lo costrinsero ad andare in pensione per limiti d’età e s’inventò allora di venirmi a prendere a scuola. In città. All’epoca in cui gli zaini erano zaini e non trolley, e se avevi anche un vocabolario e la sacca di educazione fisica parevi uno che stava traslocando, la mia schiena ringraziò. Certo, speravo sempre non mi vedesse nessuno, cosa alquanto improbabile, ma un giorno di pioggia mi venne incontro con l’ombrello aperto davanti ai miei compagni e da allora presi a chiedermi se avrei mai trovato qualcuno che avesse quelle stesse gentilezze per me.
A distanza di anni posso dire di sì, ma questa è un’altra storia.
– Sai nonno, mi hanno pubblicato il libro. – Gli ho detto qualche tempo fa.
– Davvero? – mi ha detto mentre mangiava una mela cotta sminuzzata. Anche se faceva il dentista, ai suoi, di denti, non ci ha mai tenuto.
Adesso mi telefona ogni volta che esce un articolo su di me, per avvisarmi.
L’ultima volta che sono andata a trovarlo, stava facendo un pisolino in poltrona. Aveva il mio romanzo tra le mani, l’indice ancora infilato tra le ultime pagine.
– L’ha quasi finito, – mi dice la signora che lo assiste da quando la nonna non c’è più.
E’ da un paio di anni che ha bisogno di riposarsi un po’ anche prima di pranzo.
Mi guardo attorno, in quella stanza piena di quadri e divani dove da bambina mi divertivo a scrivere giornalini su fogli A4 piegati e pinzati che poi vendevo ai parenti. Ci mettevo notizie che sentivo al telegiornale, e qualche storia inventata.
Sento una voce un po’ rauca alle spalle.
– Ciao bellissima.
Mi giro. Il nonno si è svegliato.
Gli occhi azzurrissimi sono un po’ stanchi, ma lui mi sorride.
Chiara Passilongo è nata nel 1981 e vive a Verona. Laureata in Odontoiatria, lavora come dentista. Ha frequentato la scuola di scrittura Palomar di Mattia Signorini a Rovigo. Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, La parabola delle stelle cadenti, edito da Mondadori.