OLTRE LA PENNA di… Chiara Marchelli

“Questo Piemonte, ora che ne sei lontana, mentre prima sempre lo sfumavi e lo genericizzavi, ora ti esce fuori da tutti i pori”.

Così scriveva Italo Calvino a Natalia Ginzburg nel 1961, quando uscì Le voci della sera, finalista al Premio Strega di quell’anno. La Ginzburg scrisse questo romanzo da Londra, dove suo marito Gabriele Baldini dirigeva l’Istituto Italiano di Cultura.

E di questo si è parlato qualche giorno fa qui a New York durante un collegamento Skype dalla New York University con la scrittrice Tea Ranno, autrice del romanzo La sposa vermiglia. Avevo chiesto a lei, autrice siciliana trapiantata a Roma, di incontrare la mia classe di Traduzione: stavamo traducendo alcune sue pagine, e si è finito a parlare di lingua, dialetto, distanze, memoria.

Prima di lei, una conversazione con la scrittrice americana Nicole Krauss, che intervistai per Elle qualche anno fa e che mi disse: “Io scrivo per nostalgia”.

Allo stesso modo, quel genio folle (pare che i geni spesso lo siano) di Lars Von Trier che, durante la conferenza stampa in occasione dell’uscita dello splendido film Melancholia, affermò che la malinconia, la nostalgia, sono una parte fondante di tutta la buona arte.

Diciamo tutti la stessa cosa.

Diciamo tutti che la nostalgia è la scintilla – o una delle scintille – che accende in noi il motore della creatività. Potrà sembrare singolare, e forse anche un po’ deprimente di primo acchito, ma in molti scriviamo o, più generalmente, creiamo meglio quando sentiamo una forte nostalgia per le persone, la terra, la lingua che abbiamo lasciato. Perché? Perché non averle più a portata di mano, averle perdute, ci permette di tornare al loro centro, al loro senso più profondo – e quindi al nostro – e trasporle con maggior vigore e passione nelle storie che inventiamo. Deprimente non è affatto, perché per chi come me vive all’estero da molti anni, l’opportunità di esplorare ciò che ci ha costruiti e poi abbiamo abbandonato è un po’ come ricostituirci, raccogliendoci in un momento molto privato per mettere insieme i tasselli di memoria che ci servono a sentirci interi, a “tornare a casa”. Raccontando, con quell’aggiunta così decisiva di coinvolgimento e impegno, una storia migliore.

La grandissima Alice Munro ha detto: “Scrivo le mie storie per commuovere le persone” ed è questo il canale attraverso cui, se coinvolge il lettore, passa una storia che funziona. Attraverso il sentire dello scrittore (o del regista, dello scultore, del pittore e così via), attraverso il dolore, la tenerezza, la memoria, la tristezza, la malinconia, la gioia del ritrovare ciò che è sì finito, ma vivo, vivo e vibrante quando è messo sulla carta e donato al lettore. Affinché lui raccolga i nostri poveri sforzi e faccia sì che chi siamo stati e la vita che abbiamo vissuto – per quanto trasfigurata nell’opera che mettiamo al mondo – ci restituiscano a noi stessi. E ci permettano, noi così lontani, di tornare indietro nel tempo e nello spazio, ed essere felici.

Non si può che scrivere meglio, quando lo si fa in questo stato di grazia.

 

 

Chiara Marchelli. Nata ad Aosta e laureata a Venezia in Lingue Orientali, ha vissuto in Belgio e in Egitto prima di trasferirsi a New York, dove vive dal 1999. Nel 2003 ha pubblicato il suo primo romanzo, Angeli e cani (Marsilio), che ha vinto il Premio Rapallo Carige Opera Prima, e nel 2007 una raccolta di racconti, Sotto i tuoi occhi (Fazi). Grazie alla sua attività di scrittrice, ha ottenuto la residenza e in seguito la cittadinanza americana. Ha lavorato come docente di scrittura creativa presso l’Università di Pavia e la John Cabot University di Roma. Dal 2004 insegna italiano e scrittura creativa alla New York University e collabora con varie agenzie e case editrici americane e italiane in qualità di editor, copywriter e traduttrice. L’amore involontario (Piemme) è il suo nuovo romanzo.

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