L’omicidio Carosino – Maurizio de Giovanni

Autore: Maurizio de Giovanni
Titolo: L’omicidio Carosino
Editore: edizoni Cento Autori
Genere: giallo
Numero di pagine: 107
Anno di pubblicazione: 2012
Prezzo: € 9,00

L’ambientazione descritta da Maurizio de Giovanni, giallista napoletano classe 1958, racconta un’Italia di quasi un secolo fa, stretta nella morsa del Fascismo ma che a volte riesce ancora a lanciare qualche spasmo di ribellione. La cornice è Napoli, città che mette insieme diversi mondi, con persone che nulla sembrano avere in comune tra loro ma vivono quotidianamente gomito a gomito, forse tollerandosi a stento, forse consapevoli di aver bisogno gli uni degli altri per ribadire le proprie identità. In questo groviglio di sensazioni e politica, si muove il commissario Ricciardi, la creatura di de Giovanni, protagonista di innumerevoli indagini e con una marcia in più rispetto agli altri, come dice egli stesso all’inizio del racconto ‘Mammarella’: «Potessi dirlo, direi così: mi chiamo Luigi Alfredo Ricciardi, e vedo i morti».

Una frase che chiarisce il taglio dei racconti di de Giovanni, incentrati più sulla figura di Ricciardi come uomo che come commissario. Le indagini sono secondarie, perché il commissario ha subito un evento traumatico da bambino che gli permette di entrare in contatto visivo con i morti ammazzati. Può vederne gli ultimi attimi di vita, ascoltarne le ultime parole, sentirne l’odore. Misticismo o follia? Non è importante, l’analisi del luogo del delitto e il contatto con la vittima gli permettono di scoprire in breve tempo il colpevole dell’omicidio. Ed è proprio qui che si esprime una forte analisi sociale da parte dell’autore, che utilizza la rassegnazione come metro di analisi del comportamento umano.

Ricciardi è rassegnato a non essere capito, perché negli anni ’20 (ma anche ai giorni nostri, del resto), rivelare di poter vedere i morti non verrebbe mai accettato ed equivarrebbe all’anticamera del manicomio. Ai suoi superiori interessa che trovi qualcuno di credibile da sbattere in prigione, senza informarsi troppo sul modo in cui egli indaga. Il commissario si trova così in alcune situazioni ambigue, all’interno delle quali si scopre obbligato ad agire secondo disposizioni dall’alto, contravvenendo alle proprie sensazioni e alle proprie indagini personali. Sta qui la rassegnazione di un uomo che per tenere a bada il Fatto – il momento in cui ha iniziato a vivere con le immagini delle vittime di omicidio – ne ha fatto la sua professione. Ma anche sul lavoro deve rassegnarsi alla volontà di qualcun altro, non sempre, ma spesso. La costruzione della verità, l’identificazione del colpevole, è quindi una narrazione condivisa, e se è possibile condannare un innocente per pura convenienza cosa c’è da stupirsi se un commissario, per trovare i colpevoli, ascolta i morti? È davvero così importante, infine, che la Polizia trovi o meno un colpevole di fronte alle descrizioni dell’autore che trasudano decadenza umana quasi a ogni riga?

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