Titolo: L’isola delle lepri
Editore: Guanda
Genere: romanzo
Pagine: 211
Anno di Pubblicazione: 2013
Prezzo: euro 15
Una donna ormai adulta torna nella sua terra d’origine, la Sardegna, dopo anni passati lontano da casa, “nel continente”. È un ritorno che spaventa poiché ad attenderla, oltre ad un padre vecchio, ormai vedovo e stanco di vivere, c’è una vita intera di ricordi remoti, racconti taciuti, segreti di una famiglia che ha tentato di dimenticare per andare avanti. La donna porta con sé Stefano, suo marito, e il loro piccolo figlio per sentirsi più sicura: loro sono la sua nuova famiglia, l’opportunità di costruire qualcosa al di fuori dell’incanto magnetico e terribile della sua Sardegna. Ma l’incontro col padre, il loro rapporto difficile fatto di silenzi rancorosi e intese dimenticate, rende inevitabile il riaffiorare del passato attraverso una memoria che sembra in grado di ricostruire, con uno sguardo onnisciente, anche gli episodi che appartengono a generazioni lontane.
In un’isola aspra e vitale, in un tempo lunghissimo che va dall’inizio del Novecento ai giorni nostri, si aprono al lettore le memorie familiari di tre generazioni secondo il filo conduttore dei pensieri, talvolta disordinati e incandescenti, dell’io narrante. E così seguiamo le avventure infantili di «babbo», a piedi scalzi tra gli scogli appuntiti, in riva al mare a raccogliere gli «Occhi di Santa Lucia», libero di correre e inseguire le lucertole, stanare le lepri, osservare i volteggi dei falchi nell’aria limpida.
C’è molto dello spirito morantiano dell’Isola di Arturo in questo primo quadro, forse troppo, a partire dal ritratto della fanciullezza che spensieratamente trasfigura il reale attraverso la favola, e poi l’ambientazione (perfino il penitenziario che ricorda molto quello che domina l’isola di Procida), la sospensione del tempo e, infine, la scoperta dolorosa del confine tra infanzia ed età adulta. La storia prosegue, attraverso quadri che talvolta hanno il potere di ricostruire in pochi tratti un mondo intero, ormai sommerso dal tempo, ma che in alcuni casi possono sembrare poco approfonditi, materia magmatica che l’io narrante ha l’urgenza di rievocare per trovare una spiegazione plausibile ai fatti del presente, ma senza una salda pianificazione narrativa.
Il filo conduttore che percorre i vari quadri, forse l’elemento coesivo più forte del romanzo, è una Sardegna aspra e maledetta, immobile in un tempo dilatato e sempre identico a se stesso, attorno alla quale ruota la vita dei personaggi: per quanto si allontanino, torneranno sempre lì, tra le rocce, il mare e la polvere, attratti dall’incanto funesto delle sue morgane.
«Quella volta l’onda era davvero troppo grande, troppo forte. Ho molto faticato a ritrovare la riva, e i polmoni e il corpo intero mi dolevano per lo sforzo. Ho continuato ad avere capogiri per qualche minuto. Nei giorni seguenti mi sono sentita confusa, frastornata. È così che mi sento ora. In balia di un’onda troppo alta. Le orecchie mi fischiano come quando avvicino una conchiglia per ascoltare il rumore magico del mare, ma la riva è ancora lontana» (pp. 210-211).
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