
Traduttore: Antonietta Pastore
Pagine: 275, Brossura
Prezzo: € 13,00
A Nagoya abitano cinque ragazzi, tre maschi e due femmine, che tra i sedici e i vent’anni vivono l’idillio di quelle amicizie che solo l’incoscienza adolescenziale e l’onirismo relazionale possono alimentare. Al secondo anno di università, Tazaki Tsukuru riceve una telefonata dagli altri: non deve più cercarli. Esiliato da quel gruppo che era tutto, Tazaki sprofonda negli abissi e lacerato dal dolore tocca il fondo.
Targato Murakami per la scrittura elegante ma non priva di dettagli nudi e crudi e per la lentezza con cui è necessario camminare a fianco dei personaggi, il romanzo ruota intorno alla crescita personale, confusa e passiva di Tsukuru. Tra i pochissimi a non avere un riferimento esplicito a un colore nei kanji del nome, è un trentaseienne che a dispetto dell’apparente vita equilibrata e carriera affermata – ingegnere di discreto successo, a Tokyo costruisce stazioni ferroviare – da sedici anni cammina in bilico su quel passato senza risposte.
Così, incalzato dalla pseudofidanzata Sara, espediente narrativo necessario a smuoverne l’inerzia, il protagonista incolore si mette in viaggio, per dare una risposta a quella domanda che, in un lettore occidentale medio sorge spontanea fin dall’inizio: perché Tsukuru non ha chiesto motivazioni agli amici al momento della sua cacciata?
Torna a Nagoya per incontrare Ao e Aka (rispettivamente blu e rosso), vola in Finlandia per bussare alla porta di Kuro ( il nome contiene riferimento al nero) e unendo i puntini ricostruisce la vita di Shiro (bianco): trova risposte e, mentre lasciare andare, rimane in bilico tra finzione a realtà, quasi a convincersi – e convincerci – che di quella presunta violenza sessuale detonatore di tutto, lui, ne è stato testimone e fautore.
La verità, però, è che Tazaki è un personaggio speculare al ritmo della narrazione: lento e sincopato, interrotto da flashback equamente cadenzati e necessari a mantenere due livelli temporali del racconto. È un personaggio dipinto come uomo eccezionale e pieno di qualità umane e professionali, ma incapace all’azione. Per questo Sara e Haida fungono da deus ex machina. Entrambe figure misteriose, della prima tratteniamo la meticolosa cura estetica, l’agenda fitta e la precisione linguistica; della seconda poco o niente, essendo un’apparizione intermittente di cui improvvisamente si perdono le tracce.
Tra i personaggi femminili ci sono poi Kuro e Shiro, due facce opposte della stessa medaglia: la prima espansiva, gioviale, sarcastica e disinibita, con un seno prosperoso (dettaglio ricorrente e a tratti invadente); la seconda facilmente associabile alla Beatrice dantesca, “tanto gentile e tanto onesta pare”.
Il libro affronta tematiche umane e concrete, senza lesinare in dettagli fervidi e sensuali, tanto che il dubbio sorge spontaneo: ci sono solo la depressione, la paura della sofferenza, l’amicizia, il perdono, la vita e la morte o anche questioni di genere aperte e implicitamente provocatorie?
Inequivocabile è come il complicato aggrovigliarsi delle perdite e cambiamenti abbiano incatenato il protagonista ad una perdita che ha indossato per anni come mancanza e mai come occasione. Un personaggio che ha sopportato silenzi, ha camminato e ha ossessivamente cercato il modo di voltare pagina. Lo ha trovato mettendo a tacere quelle “cose troppo complesse per essere spiegate, in qualsiasi lingua” e immergendosi nella nuova vita di quelli che un tempo erano naturale prolungamento di sé ed ora sono altro, pur essenza.
“Una cosa bella e di valore, che è stata importante anche per poco tempo, non sparisce nel nulla per un piccolo errore. Cominciamo col costruirla, la stazione, anche se non è perfetta”.